Contro il trionfo della vanagloria
Della vanagloria si parla di solito come di qualcosa che riguarda la sfera individuale, e in fin dei conti va ad influenzare esclusivamente le relazioni personali degli individui, e non l'organizzazione sociale. Io penso invece che questa componente del carattere individuale, abbia una grande influenza sull'organizzazione sociale. E forse della stessa opinione erano gli antichi romani quando insorsero contro il loro settimo re.
Io sostengo che sia riduttivo analizzare esclusivamente in termini economici, come ha fatto Karl Marx, i fattori che determinano l'insorgere di ingiustizie sociali, talvolta anche eccessivamente gravi. Non sono affatto convinto che gli esseri umani, in accordo con l'ideologia marxista, siano il prodotto dell'organizzazione sociale. Penso invece che essi costruiscano l'organizzazione sociale in base all'etica dominante, quella più diffusa nella popolazione. Penso anche che poi, la stessa organizzazione sociale influenza gli individui e contribuisce a formarli, ma che essi rimangano sostanzialmente liberi nei loro orientamenti etici come delle loro scelte morali. E dunque penso che se le classi subalterne che subiscono il peso di un'ingiusta organizzazione sociale, non sono in grado di produrre una migliore società, sia perché condividono gli ingiusti presupposti etici delle classi dominanti.
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Un concetto marxista che invece accetto, è quello di coscienza di classe. Lo interpreto come presa di coscienza da parte di un individuo, che la sua posizione sociale lo accomuna in quanto ad interessi, ad altri individui che nella stessa società hanno una posizione analoga alla sua, e dunque lo stesso vantaggio ad orientare l'organizzazione sociale di cui fanno parte, in un modo a loro favorevole. Tuttavia, pure con questa coscienza, con questa "coscienza di classe", un individuo che appartiene a una classe svantaggiata, deve operare una scelta etica, se vuole perseguire la costruzione di una società differente, anziché cercare di farsi strada singolarmente all'interno della società in cui vive, anche accettando condizioni di competizione sfrenata, e talvolta persino senza scrupoli.
Si può lottare in dieci per lo stesso boccone di pane, o chiedere una più equa distribuzione del cibo. Ma se otto su dieci preferiscono lottare per il boccone perché non riescono a superare l'odio fratricida verso gli altri, il problema non risiede nella mancanza di coscienza della loro condizione. È una scelta etica stolta, a fare sperare ad ognuno di questi, che sarà proprio lui ad accaparrarsi il boccone. Anche se poi il paragone non calza bene, in quanto la posta in gioco, nella nostra società, è di presiedere alla distribuzione del cibo. Presiedere alla distribuzione non è per uno solo, ma per pochi, anche se non per tutti. I più capaci, dicono, ci riescono; ma a me sembra che siano i più spregiudicati, anche se, a loro modo, più capaci di altri spregiudicati quanto loro.
Io penso che chi si avvantaggia di ingiusti privilegi, al giorno d'oggi abbia affinato bene questo meccanismo, e lo utilizzi egregiamente a proprio sostegno. Io penso che viviamo in un epoca di forte, per quanto mascherato, indottrinamento ideologico, e anche che le masse vengano consapevolmente spinte verso il degrado morale e civile.
Il problema che io pongo è un problema di civiltà, perché riguarda la convivenza civile. Ed è dunque essenzialmente un problema etico, per me come per qualsiasi altra persona, e non un problema economico.
Qualsiasi altra difficoltà o anche crimine sociale, vengono dal degrado della civiltà.
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Molto si può argomentare riguardo alla civiltà, allo scopo di darne una definizione. Io penso tuttavia che la sua essenza possa essere riportata a qualcosa di semplice ed essenziale. La civiltà può essere riportata al fatto che gli esseri umani si riuniscono in gruppi, sia allo scopo di migliorare le proprie condizioni di vita, sia anche di soddisfare un naturale bisogno di relazione, che è appunto in sé stesso un bisogno umano.
La civiltà può essere definita come quell'insieme di fattori che favoriscono la convivenza sociale. Scusate se è poco. Scusate, ma io ritengo che i grandi capolavori della letteratura, dell'arte e della musica, siano grandi proprio per l' importanza che hanno nello svolgere questa funzione, quella di favorire la convivenza sociale. Dopo tutto, cosa dice il testo poetico che Beethoven ha messo in musica nel finale della sua nona sinfonia? L'Inno alla Gioia è un inno alla fratellanza tra gli individui e tra i popoli, perché appunto la gioia nasce dalla fratellanza e conduce pertanto verso la fratellanza.
Va da sé che alla base di un'organizzazione sociale civile, non ci può essere la competizione, ma la collaborazione. Forme di competizione possono, a mio avviso, in una certa misura anche essere ammesse, ma non possono costituire il nucleo essenziale dell'organizzazione sociale, e meno ancora essere assunte come il suo fondamento etico-organizzativo.
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È appunto l'etica quella branca del pensiero, che prende in esame gli atteggiamenti umani che regolano le relazioni sociali.
Da un punto di vista etico, il fatto che nell'organizzazione sociale, i fattori economici vadano a collidere con la giustizia sociale, può essere riportato a un difetto del carattere delle persone, a cui diamo di solito il nome di avidità. L'avidità è un atteggiamento verso il possesso, un modo di considerarlo, il fatto di vederlo come un valore a sé stante e al di sopra di altri valori anche più importanti, che vengono, a causa dell'avidità, del tutto trascurati. Tuttavia, nel carattere delle persone, questo non è l'unico difetto che produce spinte sociali che in qualche modo sono disfunzionali.
A mio avviso la vanagloria è un vero cancro sociale, capace di fare ammalare e morire le civiltà. Questo perché, se il possesso è correlato con la distribuzione delle risorse, la vanagloria si associa all'assegnazione di riconoscimenti sociali e privilegi, e più ancora all'esercizio del potere, e questi fattori si sono rivelati disfunzionali anche nei regimi comunisti.
Io sono arrivato alla conclusione che anche la disparità nella distribuzione dei beni, riguarda l'esercizio del potere da parte di alcuni su altri. Che la caduta della civiltà nasca sempre dalla volontà dell'uomo di esercitare il potere sull'uomo. Esercitare potere sugli altri fa ammirare sé stessi, che è appunto la negazione dell'etica, il cui corretto fondamento sta proprio nel riconoscere a tutti pari dignità.
Assoggettare la volontà dell'altro, anziché cercare con lui il confronto, è questa la massima condizione di degrado e di auto-esaltazione.
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Ora, se l'etica prende in considerazione gli atteggiamenti umani che influenzano e governano la convivenza sociale, le regole che gli esseri umani si danno allo scopo di regolare la propria convivenza, prendono il nome di "leggi".
Si parla di cultura della legalità, ma non ci si chiede se le leggi sono sentite dalla popolazione, e se non sono da essa sentite, perché non lo sono.
Cosa diversa è fondare le leggi sui rapporti di forza, da quella di fondarle invece sull'etica. Solo nel secondo caso si ottiene la giustizia, perché nell'altro caso, ciò che si ottiene è nient'altro che la legge del più forte. Tuttavia, se vogliamo organizzarci in una società laica, e non in una teocrazia in cui i valori etici sono il risultato di una rivelazione divina, occorre che essi siano ricavati da un pubblico dibattito, proprio perché alla base di un'etica correttamente fondata vi è il confronto.
Questo è quanto io sostengo, e su questo sono disposto a confrontarmi.
Dunque voglio anche aggiungere che le leggi, per funzionare, ovvero per migliorare la convivenza civile, devono esprimere un sentire comune. Esse devono essere il risultato di un concezione etica così largamente condivisa, da giustificare il controllo della devianza da questa concezione, che è il senso della legge. E se al senso della legge vengono poste obiezioni, su tali obiezioni deve essere aperto un pubblico dibattito. Si deve arrivare alla loro confutazione, o a un cambiamento della legge che tenga conto di tali obiezioni. Perché se le obiezioni non possono essere confutate, la legge non è più espressione di giustizia, ma diventa un'imposizione sociale.
Tuttavia ecco, ciò che appare ai miei occhi è una società in cui il degrado morale e civile prevalgono, e in cui le leggi non tutelano perché non esprimono la giustizia. A poco servono i richiami ad esercitare il diritto di voto, se i cittadini non sentono di partecipare alle istituzioni, pur esercitando questo diritto.
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Così, passo ora a un commento lirico sul mio dipinto digitale.
Se ho scritto "freedom" in inglese, e non "libertà" nella mia (amata) lingua, è perché la mia lingua la amo, ma non più amo il (mio) popolo, che tanto "mio", io più non lo sento. Mi sento italiano, ma non come "gli altri italiani", ma piuttosto come "altri italiani", gli italiani che nel passato, parlavano la mia stessa lingua, e che ora mi sembra che più non ci siano.
Non è solo il fatto che molti di coloro dai quali io mi ritrovo circondato, non parlano nemmeno un corretto italiano, e nemmeno riescono a parlarlo quando si cimentano nell'impresa, anche pensando di riuscirci. Poiché il problema più grave è che per parlarlo, costoro hanno bisogno di applicare le regole della sua complessa grammatica. Non viene loro spontaneo, perché non condividono la cultura da cui questa lingua è animata; la cultura in seno alla quale ha avuto origine. Mi appaiono fondamentalmente estranei a quella cultura umanistica in cui io mi riconosco perché sento che perseguiva valori di civiltà. A quella cultura umanistica che ha sviluppato la lingua italiana dal volgare, dalla lingua del popolo di cui gli umanisti rilevarono l'eloquenza, ovvero la capacità espressiva.
In quella cultura umanistica, ad esempio, per dirne una, il genere grammaticale maschile era realmente inclusivo, al contrario di quanto dichiarano certi intellettuali mediatici nostri contemporanei. In quella cultura umanistica anche la donna - ovvero "domina", "signora" e non più solo "mater familias" - acquisiva una nuova dignità sociale.
Se penso all'espressione"amore mio" in cui "amore" diventa un aggettivo che terminando con la lettera "e", acquista un doppio genere grammaticale, femminile e maschile, io mi chiedo come fanno questi paladini mediatici in cerca di gloria, a sostenere che nella lingua italiana, il genere grammaticale maschile non è inclusivo.
Senza per il momento entrare troppo nel merito del maschile inclusivo, dico che agli intellettuali mediatici non serve analizzare fatti e circostanze storiche e linguistiche, perché a loro basta una visibilità e una patente di credibilità che viene conferita loro da una pubblicità ingannevole, che è ingannevole perché non si presenta come tale. Coloro che portano avanti tesi contrarie alle loro, sono sempre intellettuali mediatici, e tutti parlano per autorevolezza, con argomenti che poco sostengono le loro tesi, al contrario dei nostri umanisti. La loro autorevolezza li eleva al di sopra del volgo, li rende superiori alle masse, e queste modellano acriticamente le proprie opinioni sui loro vaticini.
Non so quale sia il percorso che porta a diventare intellettuali mediatici, ma mi sembra verosimile che per farlo occorra asservirsi a dire, almeno in parte, o almeno in alcune circostanze, ciò che altri vogliono che si dica. Non mi sembra che sia a motivo di una profondità di pensiero che altri non hanno, che viene loro riconosciuta loro una pubblica funzione. Mi sembrano, un po' tutti, imbonitori di folle, che danno al popolo ciò che vuole sentire, mescolandolo a ciò in cui vogliono che creda.
Mi sembra che in italiano la parola "libertà" sia ormai priva di senso, anche se un significato continua ad averlo. Non credo che in altre lingue, la parola che esprime lo stesso significato - "freedom" in inglese - descriva in qualche modo una condizione effettiva, al pari di come tale condizione mi sembra assente in questo disgraziato paese. Tuttavia rimane in me la speranza che altrove sia "diverso, diverso da qua", e che rimanga forse in alcuni, un anelito verso uno stato di cose, una condizione, che sia libertà. Rimane in me la speranza che altrove, in alcuni, resti almeno il desiderio, di libertà. Allora, per questo, altrove non sarebbe una parola priva di senso, perché il senso lo troverebbe, in quel desiderio di chi ancora vi crede. E se il mio linguaggio, in questo mio sfogo, è in una certa misura iperbolico, il mio timore è che questa misura sia troppo scarsa, al punto da trasformarlo in una descrizione crudelmente concreta e reale.
A questo punto però ciò che a me viene da chiedermi è cosa fare. È mia opinione che alle situazioni difficili bisogna sempre reagire, che per fronteggiare il malessere occorre trovare soluzioni.
Io penso ciò che si deve fare sia di utilizzare quegli spazi di democrazia che i nostri padri e i nostri nonni ci hanno aperto combattendo contro il fascismo, per propagare da forti - come dice la canzone di Pietro Gori "Addio Lugano Bella" - le verità sociali.
Non sono necessari scontri violenti e non sono necessarie "azioni dimostrative". Anzi sono cose insensate che servono solo a giustificare la repressione di uno Stato, della nostra Repubblica, in cui la sovranità, per come io la vedo, al popolo non gli appartiene più. Ma se non si creano i presupposti etici nelle classi svantaggiate, non c'è niente da fare.
Il punto è che le avanguardie rivoluzionarie - perché di questo si tratta, non nel senso di agire con la forza, ma di produrre una radicale trasformazione sociale - le avanguardie devono operare nel presupposto del bene collettivo, e non al fine di promuovere sé stesse.
Dopo averlo cacciato da Roma, cacciamo Tarquinio il Superbo anche da noi stessi.
Maurizio Proietti iopropars
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