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mercoledì 22 gennaio 2025

Una contraddizione apparente

Bursting into life
dipinto digitale di
Maurizio Proietti iopropars

 


Una contraddizione apparente

(breve saggio esistenzialista)


Per introdurre il presente discorso, dico che sono sicuro che non a tutti è dato di capire la circostanza che andrò ad esporre, e che tuttavia si tratta di una circostanza reale. Riguardo a coloro che non riescono a coglierla, mi sento di affermare che vi possono essere due motivi. Il primo è che queste persone non ricercano la saggezza, e questa è una scelta che ognuno è libero di fare; l'altro è che non sono ancora abbastanza avanti nel percorso verso la saggezza, e  questa è una situazione in cui per una parte del percorso, si viene a trovare chiunque intraprenda un qualsiasi percorso. 

La circostanza di cui parlo pone una contraddizione apparente nella natura dell'operare umano. 

Tale circostanza, è che per operare saggiamente, l'essere umano deve intendere, che per quanto egli debba impegnarsi a conseguire gli obiettivi che egli si prefigge, non è tanto importante il conseguimento di quegli obbiettivi, quanto la tensione verso di essi, ovvero che si proceda nel modo migliore per poterli conseguire. La meta, o l'obiettivo, in questo modo viene ad essere importante perché richiede l'impegno, ma al tempo stesso non importante, perché la realizzazione di sé stessi viene dall'impegno, e non del conseguimento di ciò per cui ci si impegna.

La contraddizione si acuisce per il fatto che la meta che ci si prefigge deve essere sensata, ovvero deve avere uno scopo ritenuto valido; se vogliamo, deve migliorare in qualche modo la condizione di chi quella meta si prefigge. E tuttavia per lui non ha importanza che quella meta sia raggiunta, quanto piuttosto che vi si proceda nel modo più adeguato. Ciò che importa per l'essere umano è di perseguire nel modo più adeguato gli obbiettivi sensati che egli si prefigge, non che gli obbiettivi vengano raggiunti.

L'apparente paradosso è mitigato dal fatto che l'azione, per essere efficacie, va sempre adeguata all'obiettivo, e che per quanto si possa fallire nel raggiungerlo, perseverando nel tentativo, non si mancherà di riuscirci; a patto che continuino a sussistere le condizioni che lo rendono possibile, perché appunto non ha senso perseguire un obiettivo irraggiungibile.

La prospettiva che ho appena esposto offre però anche una visuale in cui il paradosso già si manifesta come condizione solo apparente. Infatti in questo modo possiamo vedere che il conseguimento dello scopo può essere emotivamente già presente nell' azione volta a conseguirlo. È quello che si dice quando si dice che perché il nostro operare sia efficace, bisogna credere in ciò che si fa. Ma è anche quello che è portato avanti nella filosofia Zen, quando avvisa di stare nel presente, che non vuole dire perdere di vista i propri scopi, ma che essi siano uno con l'azione volta a conseguirli.

La circostanza da me posta come condizione di saggezza, effettivamente non è contraddittoria come appare, perché ci parla in qualche modo della natura umana. È come se l'essere umano debba essere al servizio di sé stesso, rimanendo distaccato da sé stesso. L'essere umano nei confronti di sé stesso non deve avere attaccamento. Questo è ciò che io penso della natura umana.

D'altra parte la filosofia Buddista, di cui lo Zen è uno sviluppo, indica appunto la via della realizzazione di sé nella rinuncia al desiderio. Ma anche il cristianesimo dice di non concupire, e cioè non desiderare con brama, e di rimettersi alla volontà di Dio.

Ma non è che queste religioni, che sono anche filosofie di vita, non indichino atteggiamenti che non siano presenti in altre filosofie di vita presso vari popoli.

Anche presso gli antichi romani vi era una filosofia di vita che era un modo di essere romani; se vogliamo, un' etica che distingueva l'essere romano dall' appartenere ad altri popoli. Presso di loro era di fondamentale importanza il modo in cui si affrontava la morte. Io credo che questo fosse proprio perché il modo in cui si affrontava la morte era visto come prova di distacco da sé stessi.

Io credo che sia questo distacco da sé stessi, ciò che distingue gli esseri umani dal resto degli animali, e mi sembra che anche per gli antichi romani dovesse essere così. Infatti Sallustio nella sua narrazione storica della Congiura di Catilina, dà conto delle proprie motivazioni ad affrontare il lavoro di storico che si era prefissato, nella necessità per gli esseri umani di elevarsi al di sopra degli altri animali, ovvero non di non vivere da schiavi delle proprie passioni.

Io, al contrario dei vegani, sono decisamente specista, e cioè credo che la specie umana sia superiore a qualsiasi altra specie animale, e che ogni essere umano non debba mai dimenticarsene e che debba sempre comportarsi di conseguenza. 

Tuttavia, se io richiamo alla nobiltà dell'essere umano, ricordo anche "noblesse oblige". 

Con questo voglio dire, ad esempio, che bisogna comunque ricordare che c'è una differenza abissale tra un animale e un macchinario industriale. Dico che poter disporre della natura non significa poterla distruggere. Agricoltura e allevamento dovrebbero per come io la vedo, essere un prendersi cura di parte dell'ambiente naturale, e utilizzarlo anche per i propri scopi e sostentamento.

D'altra parte, quale sarebbe dovuto essere il compito dei nobili, se non quello di richiamare alla nobiltà il popolo? Intendo, anziché quello troppo frainteso di godere di ingiusti privilegi... Richiamare alla nobiltà il popolo da parte del Senato, è proprio il modo in cui avrebbero dovuto procedere le cose nell'antica Roma, e il modo in cui invece non sono andate.

Ricordare che l'essere umano è superiore alle altre specie animali, è a mio avviso una consapevolezza che doveva essere ben presente presso i nostri preistorici progenitori. Uscire da questa consapevolezza significava e significa, andare verso l'abbrutimento, come restarvi significava e significa continuare nel progresso civile. Io penso che dovesse essere questo originariamente il motivo che richiamava gli antichi romani ad essere fedeli ai costumi degli antenati. Poi però, anche questa fedeltà ha potuto essere fraintesa come opposizione ad ogni forma di cambiamento.

A me non sembra che vi sia nulla di antiscientifico nel supporre che l'intelligenza umana sia qualcosa di qualitativamente, e non solo quantitativamente, superiore a quella di qualsiasi altro animale. Io dico che è vero che noi esseri umani siamo animali, ma è vero che siamo anche qualcosa di diverso da loro e di cui nell'ambiente naturale non vi è nulla di uguale. Non è antiscientifico supporlo semplicemente perché è possibile. 

Non è antiscientifico supporlo, anche se bisogna dimostrarlo. Ma è certamente antiscientifico negarlo a priori. Anche per poter affermare il contrario bisogna dare una dimostrazione; per quanto anche supporre il contrario non sia antiscientifico, fino a prova contraria.

Tuttavia non ci farebbe orrore chi dovendo salvare la vita, supponiamo da un incendio, a un gruppo di esseri umani e di animali che stessero nello stesso posto, ponesse le loro vite sullo stesso piano? Io penso che ci sembrerebbe un mostro da un punto di vista morale, oppure completamente pazzo. Ve lo immaginate il tipo? "Visto che avevo tratto in salvo già tre esseri umani, piuttosto che trarre in salvo il quarto, ho preferito salvare almeno uno dei cani...".

Che gli esseri umani siano superiori agli altri animali, è senza dubbio ciò che nel concreto tutti gli esseri umani sentono. Gli esseri umani sentono nel concreto, che come non è possibile porre sullo stesso piano, da un punto di vista etico, un animale e una pianta, non è nemmeno possibile, da un punto di vista etico, mettere sullo stesso piano un essere umano e un animale. 

Mi vengono in mente ora i discorsi di alcune persone che conosco, che dicono che anche gli animali comunicano, che sono capaci di esercitare solidarietà e via discorrendo, e dicono che sembra anche che i delfini per comunicare usino una specie di linguaggio, e via di questo passo. Il punto è che io sono perfettamente d'accordo con questi discorsi. Io però aggiungo che il linguaggio umano è di natura differente, perché la mente dell'essere umano è di natura differente. E anche l'amore umano è differente, per quanto io non ho dubbi che l'amore esiste anche nel regno animale.

Io penso invece che l'amore governi la vita, e che nell'essere umano la vita raggiunge il suo massimo sviluppo, producendo qualcosa che si distingue per natura, da tutti gli altri esseri viventi.

Noi esseri umani per mezzo del linguaggio, evochiamo la presenza di ciò che è assente. È questo che ci permette, attraverso il linguaggio, di descrivere il mondo in cui viviamo e che ci ha prodotto, e di narrare ad altri esseri umani le nostre esperienze. Noi esseri umani siamo in grado di raccontare la nostra storia. Questo è ciò che fa appunto anche Sallustio quando parla della Congiura di Catilina, producendo un'opera che a secoli di distanza dalla sua morte, è ancora in grado di offrirci insegnamenti, e soprattutto di farci capire il nostro passato. Io non ho dubbi che rispetto al linguaggio dei delfini, questo sia "altra roba".

Se dunque c'è distinzione tra un essere umano e qualsiasi altro animale, noi esseri umani siamo anche chiamati a realizzare in noi stessi la nostra condizione umana. Io sostengo che un elemento essenziale di questa condizione sia appunto quel distacco da sé stessi di cui parlo. La realizzazione di questo distacco, ci fa provare per un altro essere umano ammirazione, perché vediamo in lui realizzata appieno la nostra condizione, a cui aspira la parte più intima di noi stessi, il nostro "cuore", che ci chiama a realizzarla.

Io affermo che nella natura umana sussiste il fatto, che gli esseri umani si sentano chiamati a realizzare in sé stessi la propria umana natura; anche se tuttavia la risposta a questa chiamata, kantianamente, può essere disattesa.

Il realizzarsi in qualcuno, della più autentica condizione umana, se provoca ammirazione nelle persone rette, provoca invece l'invidia dei vili, che avendo degradato sé stessi ad essere schiavi delle proprie passioni, vogliono negare che vi sia qualcosa di nobile alla quale aspirare, e per questo odiano i giusti senza averne motivo.

Io, considerando il sacrificio di Isacco, del figlio della promessa, il sacrificio che Dio chiede ad Abramo, ritrovo proprio una spinta verso il  distacco. Abramo può avere Isacco dopo aver saputo rinunciare a lui, accettando di essere egli stesso artefice della sua morte. Abramo può rinunciare alla sua massima aspirazione in nome del suo amore per qualcosa di più grande, per amore del suo Dio che egli ama con tutte le sue forze, ovvero anche al di sopra di sé stesso. Mai Abramo avrebbe potuto accettare di sacrificare Isacco, se egli stesso non fosse stato disposto a morire, e la sua vita non fosse stata completamente al servizio di Dio.

Io però ravviso sviluppo nel Cristianesimo. Dico che Dio nel suo amore non avrebbe chiesto ad Abramo un sacrificio che Abramo, pure accettandolo nella sua volontà, non era pronto ad affrontare. Questo è il sacrificio che invece affronta il Cristo Gesù, mio Signore e Maestro.

Io, come cristiano, mi sento di affermare che non c'é di fatto distizione tra la fede e l'amore verso Dio. Cristianamente, è proprio l'amore verso Dio, che ci permette di non dubitare nella nostra fede. Così che è appunto scritto che il giusto vivrà per fede.

Al di là della fede tuttavia, questo anche affermo, per esercitare la giustizia, occorre esercitare distacco da sé stessi. Ma anche per esercitare misericordia occorre esercitare distacco da sé stessi. Così vediamo che il distacco da sé stessi è ciò che fonda ogni virtù morale.

Questo ci insegna il Cristo Gesù, che di amare Dio con tutte le proprie forze è il primo dei comandamenti, e che il secondo che da questo discende è di amare il prossimo come sé stessi. Amarlo come sé stessi: questo è il comandamento.

Ora, a parte le molte guerre, cosa hanno dato gli antichi romani al mondo? Gli antichi romani hanno fondato la civiltà del diritto.

A questo punto non c'è da stupirsi che molti tra gli antichi romani aderissero allo Stoicismo, perché presentava una sistematizzazione di tendenze già presenti nelle loro tradizioni.

Anche l'Epicureismo tuttavia propone un distacco dalle passioni. Andiamo però ad analizzare il celebre esempio dell'Ataressia nell'Epicureismo. Guardare in lontananza un uomo che sta affogando, non poter fare nulla per aiutarlo e goderne, non come sentimento verso quel poveretto, ma verso sé stessi per essere fuori da quella situazione. Che il principio sia fallace è a mio avviso evidente. È fallace perché isola l'individuo dalla relazione con l'altro che sta affogando.

Io sostengo che ciò che è giusto provare, ciò che è umano, è un dolore verso il poveretto perché questa è compassione. Il dolore può essere mitigato solo dalla consapevolezza che potendo fare qualcosa per lui, noi senza dubbio la faremmo. E se è giusto continure a provare rammarico per la sorte del pover'uomo, la pace può e deve essere trovata solo nella consapevolezza della nostra assoluta determinazione ad aiutarlo, e che se non lo facciamo è solo perché non ci è possibile. Tuttavia il rammarico non ci deve lasciare perché sta a rammentarci che chi sta in quella condizione, non è un essere separato da noi stessi. Noi possimo trovare pace nella rassegnazione, nell'accettazione di un evento che per quanto è doloroso, è anche ineluttabile. Se si aggiunge a questo la fede in un ordine cosmico benigno, si arriva sia allo Stoicismo che al Cristianesimo; ma credo anche al Buddismo e all'Induismo, e ad altre religioni. 

Io sostengo che è umano avere la consapevolezza, che quell' essere umano non è un essere separato da noi stessi, e che dunque questa deve essere della natura umana la condizione fondante. 

Il distacco dell'essere umano verso sé stesso nasce dal fatto che l'essere umano è un essere che non è rinchiuso nella propria individualià. Questa è la natura umana.

Maurizio Proietti iopropars



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