martedì 13 dicembre 2022

Manicomi Domiciliari



 

Il titolo del presente post è provocatorio. Indica la via da non percorrere.

Ho eseguito le due locandine digitali - opere di Arte Digitale, come io le considero - per la Giornata Mondiale della Disabilità di quest'anno. Giornata che ricorre il 3 dicembre.

L'idea di fondo è che si debba superare non tanto lo stigma verso la persona con disabilità e soprattutto quella con disabilità psichica, quanto i pregiudizi e i preconcetti. Bisogna essere aperti all'incontro con la persona reale, e più che considerarlo "un disabile", essere disposti riconoscere le sue capacità e i suoi bisogni. Ma questo vale sempre per tutti. Bisogna sviluppare una civiltà che sia maggiormente basata sul riconoscimento della realtà dell'altro e sul reciproco rispetto. Il che poi non vuol dire che non ci si possa aiutare gli uni con gli altri a migliorarci.

 Riporto di seguito un mio intervento che ho scritto per un convegno sulla disabilità.


“Recovery e contesto sociale”

Considerazioni di un paziente psichiatrico


Espongo di seguito il mio punto di vista di paziente psichiatrico riguardo alla recovery. 

Da questo punto di vista parlo di “disturbo psichico” e non di “malattia mentale”, perché quella che da parte di alcuni viene considerata malattia, viene effettivamente da me esperita come disturbo. D’altra parte il DSM è manuale statistico, precisamente dei disturbi psichici. 


Per quella che è la mia esperienza, riporto il mio “disturbo psichico” a due condizioni, una di sofferenza, e una a cui potrei riferirmi come a una “discrepanza cognitiva”. Con il termine “discrepanza cognitiva” intendo una lettura o interpretazione inadeguata di certe situazioni, o addirittura della situazione generale in cui mi sono venuto a trovare. Potrei anche semplificare dicendo che ho “travisato la realtà”, o che avevo una tendenza “a travisare la realtà”, tuttavia parlando in questi termini, sento di esprimermi in modo meno descrittivo della mia situazione. Mi sembra meno descrittivo perché i travisamenti che effettivamente ho operato, erano sostenuti da dinamiche emotive associate a quelle situazioni. Potrei affermare che le mie facoltà cognitive sono state in parte agite dal substrato emotivo.


Sempre secondo la mia esperienza, mi sembra che i fattori che modulano l’andamento del mio disturbo psichico, risiedano sia nelle mie dinamiche intrapsichiche che in quelle relazionali, ma che non si possano collocare separatamente in nessuna delle due, ma piuttosto operino, come mi sembra naturale aspettarsi, nella loro interazione.


Così, per come ho introdotto questa mia esposizione, io vivo il mio percorso di ripresa - di uscita dalla condizione di “disturbo” - in una doppia prospettiva. Cerco sia di migliorare le mie reazioni emotive, anche attraverso un percorso di crescita personale, che, al tempo stesso, di adeguare le mie relazioni interpersonali a un miglioramento del mio benessere. Come dire, semplificando, che io faccio la mia parte per stare nella relazione, ma chiedo che anche chi mi sta intorno faccia la propria - cosa quest’ultima, che talvolta non è pretesa da poco per un paziente psichiatrico.


Proprio nella seconda prospettiva mi sono trovato di fronte al problema di mediare la mia identità personale col contesto sociale. Non che io non mi sia trovato ad affrontare questo problema anche prima che la mia condizione di disturbo, per una serie di circostanze, si acuisse fino a passare dal solo malessere a una condizione anche di discrepanza cognitiva. Però posso dire che nella condizione di paziente psichiatrico questo problema si è andato accentuando parecchio, e credo di poter affermare che, forse non solo per me, questo possa essere un fattore ostacolante della ripresa dalla condizione di disturbo.


Il problema dell’identità, da un punto di vista personale è un problema di auto-ascolto, ma anche di elaborare la capacità di proporsi agli altri, proprio per l’importanza che riveste per ognuno di noi la relazione. Da un punto di vista interpersonale è un problema di visibilità. È il problema della disponibilità degli altri a vederti per come tu ti proponi, invece che nel modo che loro decidono, vuoi per loro esigenze pratiche che intrapsichiche.


Per fare un esempio, dico che coloro che mi spiegano lentamente e con fare paziente e benevolo le cose più semplici, mostrando di pensare che io sia rimasto fissato a uno stadio di sviluppo infantile, o coloro che invece più spesso, e direi con molta frequenza, mi considerano del tutto incapace di riconoscere qualsiasi situazione di rischio o pericolo, mi sembra evidente che lo facciano per assecondare le proprie esigenze narcisistiche. In generale viviamo in una società in cui di solito non interessa all’altro conoscerti, o vederti semplicemente per ciò che sei, ma piuttosto cerca di collocarti in una categoria, in modo da adeguare convenientemente ad essa il proprio atteggiamento. Essere paziente psichiatrico esclude la formula “scusa, come ti permetti?”, perché in quanto paziente psichiatrico l’altro si può permettere, e una rimostranza anche pacata può scatenare un tentativo collettivo di rabbonorti, di tranquillizzarti.


Ora, quando il sociologo statunitense Erving Goffman ha definito le “istituzioni totali”, si riferiva a strutture che oltre ad essere organizzazioni burocratiche fossero anche comunità residenziali, in grado di limitare al loro interno la possibilità di socializzazione degli individui che vi risiedono. Sono totali in quanto esclusive. Tuttavia l’elemento su cui queste istituzioni operano, secondo l’analisi di Goffman, è proprio la capacità degli individui di proporre al contesto sociale la propria identità personale, di costruire la propria identità personale in quel contesto in cui sono relegate.


Per cui la mia osservazione - il mio monito, se vogliamo - è di stare attenti a non costruire per i pazienti psichiatrici, o per alcuni pazienti psichiatrici, una situazione che potremmo provocatoriamente definire di “manicomio domiciliare”. In proposito, aggiungo a quanto già esposto riguardo al proporre l’identità personale al contesto sociale, che per come mi appare, noi viviamo in una società esasperatamente classista, in cui si attribuiscono dei pesi in termini di valore alle persone, e questo determina una onnipresente struttura gerarchica, il cui fine non è organizzativo, ma di assecondare le esigenze narcisistiche. Il paziente psichiatrico, anche quando riceve il plauso, è l’ultimo anello di questa catena di gerarchizzazione del valore umano di ciascuno. È quello di fronte a cui tutti si possono sentire grandi, e alcuni pazienti psichiatrici lottano per poter salire individualmente di categoria, diventando motivo di vanto per la comunità che li appoggia. Che un contesto sociale di questo tipo opponga cieca resistenza al recupero dalla condizione di disturbo, mi sembra ovvio.

  

Vorrei anche riportare la mia esperienza per cui per la stragrande maggioranza delle persone - la quasi totalità di loro - sapere che una persona è un paziente psichiatrico, significa la licenza di non mettersi in discussione all’interno della relazione. E questo a volte è penosamente vero anche per i familiari stretti, magari anche pronti a prodigarsi nei confronti di questa persona, in alcune situazioni in cui lei ha bisogno di loro, ma non ad ammettere un loro errore o di avere avuto torto in qualche circostanza, semplicemente perché sentono di avere la licenza di escluderlo, in una situazione culturale come quella attuale, che rende il fatto di mettersi in discussione o di ammettere un proprio errore o una propria debolezza, difficile per tutti. Anche questo è un modo un cui l’identità del paziente psichiatrico è già tracciata, e con essa il suo destino è vincolato.


Vorrei concludere dicendo che riguardo all’abitare autonomo, la mia opinione è che certamente, anche nella situazione da me esposta, o soprattutto in questa situazione, apre maggiori prospettive e offre maggiori opportunità di gestirsi e di proporsi agli altri. Tuttavia io penso che senza una sensibilizzazione anche per i temi da me delineati, può non essere abbastanza. 


Maurizio Proietti

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