Raccogliendo ammirazione Dipinto digitale di Maurizio Proietti iopropars Definirei la donna In che modo definirei la donna? Questo è per me, Un modo diverso d'essere, Ma una diversità da amare. Maurizio Proietti iopropars Se ha senso Se ha senso Ancora parlare d'amore Ha senso Per ritrovare senso. Maurizio Proietti iopropars Faccio anche un appello Il mio è anche un appello all'invio di sempre più armi, non solo in Ucraina, ma anche in qualsiasi altro paese in guerra in qualsiasi altra parte del mondo. È una festa a cui sembra partecipare anche la natura, che appare sempre più aggressiva verso questa specie umana, che è sempre più distruttiva verso il mondo in cui vive e sempre più distruttiva verso sè stessa, proliferando supina, sotto il dominio e l'avidità di minoranze narcisiste, perché nel suo complesso incapace di evolversi dal proprio narcisismo e dalla propria smania di dominio. "Vanità delle vanità... Chi ama il denaro non è mai sazio di denaro e chi ama la ricchezza non ne trae profitto: anche questo è vanità... Solo questo ho constatato, Iddio ha fatto l'uomo retto, sono essi che si procacciano tanti malanni." Che sia l'amore anche accettazione, della diversità? Chi ama sicuramente accetta Ciò che è altro da sé stesso. Maurizio Proietti iopropars (i periodi tra virgolette sono tratti dal Libro dell'Ecclesiaste) |
Si può esprimere ciò che si prova, e condividerlo, sia dandone una semplice descrizione, sia attraverso forme artistiche che portino gli altri ad esperirlo in modo più diretto. Ora, certamente non è detto che si debba esprimere e condividere solo disagio. Tuttavia di condividere i propri disagi, a me sembra che talvolta vi sia maggiore necessità; forse perché le situazioni di disagio richiedono una risposta, e ci sembra bene elaborarne una collettiva.
sabato 26 ottobre 2024
Raccogliendo ammirazione
mercoledì 9 ottobre 2024
Il bardo
venerdì 20 settembre 2024
Il mito della doppia negazione
Il mito della doppia negazione
Vi sarebbe da analizzare la questione di una supposta doppia negazione nella lingua italiana, che non produrrebbe il senso di un'affermazione.
Questa circostanza suggerisce l'idea che la logica non sia un sistema inerente al pensiero di ogni essere umano, che da questo sistema può talvolta anche errare, ma poi rendersi conto di aver sbagliato. Prospetta l'idea di una logica che sia un sistema prodotto da qualcuno in qualche modo, e a cui si è stabilito che il pensiero si debba adeguare per poter essere razionale. Se così fosse però, io anche mi chiedo in che modo si sarebbe potuta ricavare la logica, e riconoscerla idonea a guidare il pensiero, da parte di pensatori che prima di compiere l'ardita impresa erano privi di logica.
È vero che nella storia del pensiero sono stati costruiti sistemi formalizzati di logica, come è anche quello del sillogismo, in cui si stabiliscono regole per il pensiero logico. Ma questo ha potuto essere possibile solo perché il pensiero umano era già in grado di pensare in modo logico. Un logica formalizzata dovrebbe avere la sola funzione di escludere l' errore, e non di far funzionare il pensiero umano in modi che non gli sono propri.
Il mio problema con la supposta doppia negazione nella lingua italiana, fin da una giovane età, è sempre stato questo: io, se faccio un errore logico sono in grado di accorgermene, di percepirlo come errore, e non solo di ricavarlo come errore perché non rispetta un sistema di regole con cui lo confronto. Come mai allora questa struttura sintattica della lingua italiana non mi dà il senso di un errore logico, ma la sento invece profondamente significativa?
Io non sono proprio mai riuscito a sentirla come errore, nemmeno con esasperato sforzo.
La risposta facilona prestampata sui moduli del Ministero dell'Ignoranza ( a cui fanno capo alcuni insegnanti ) è sempre stata questa: perché siamo abituati così. Come dire "Pace, non ci va di impelagarci in questo problema". Ma perché allora vi fate fregio di essere filosofi? Guai a chiederlo, perché l'altra risposta prestampata è "Tu non sei filosofo ma soltanto pazzo".
A mio avviso vi è un'errata analisi linguistica alla base di questa supposta doppia negazione nella lingua italiana, che stranamente non produrrebbe il senso di un'affermazione, come invece proprio avviene in altri contesti di questa stessa lingua.
Io sono arrivato alla conclusione che non è corretto paragonare il "nulla" e il "niente" e il "nessuno" della lingua italiana con i termini inglesi "nobody" e "nothing", che possono essere considerati come effettive negazioni, mentre il termine "nulla", come pure gli altri due termini che ho elencato, non sono propriamente negazioni.
Io dico che il nulla è la condizione di assenza dell' essere e non la negazione dell' essere. Dire che l'essere è assente, non significa negare l'essere, ma descrivere uno stato o una condizione in un determinato contesto.
L'assenza dell'essere in un contesto, non può essere intesa come presenza del non essere in quel contesto, perché si intenderebbe qualcosa privo di senso.
Mi sembra senza dubbio più chiaro dire che prima della nascita dell'universo l' essere era assente, piuttosto che dire che vi era assenza di essere. Infatti l'assenza non può essere presente, se non nella nostra mente quando vi sia aspettativa di trovare qualcosa. La presenza dell'assenza descrive una condizione psicologica legata a una circostanza empirica. L'assenza invece è una circostanza empirica. L'assenza è un attributo dell'essere, che noi diamo all'essere quando lo mettiamo in relazione con un determinato contesto.
Allo stesso modo per me in italiano, dire che non vi era nulla, risulta logicamente più corretto che dire che vi era il nulla. Infatti dire che vi era il nulla, implica affermare implicitamente che il nulla esiste. Questa - lo dico con Parmenide - è un' affermazione intrinsecamente contraddittoria, perché non si può attribuire l'essere al non essere. Però del nulla non si può dire neanche che non esiste o che non è, perché il non essere non ammette attribuzioni - e sto ancora con Parmenide.
Il non essere è la condizione in cui non vi è nulla a cui attribuire alcunché. Se intendiamo il nulla come "non essere" allora, con Parmenide, del nulla, nulla può essere detto.
Però se analizziamo la cosa, non dal punto di vista della natura del nulla, ma da un punto di vista linguistico, o se vogliamo semantico, mi trovo invece d'accordo con Fredegiso di Tours (m. 834), che si è posto principalmente il problema dell'esistenza del nulla, e ha concluso che il nulla deve essere qualcosa.
Come Fredegiso ha affermato prima di me per il nulla, dico che il non essere è certamente qualcosa, nel senso che il termine ha un suo significato. Però aggiungo che il suo significato descrive la condizione di assenza dell' essere. Anche il termine "nulla" serve ad indicare questa condizione, che come condizione dunque esiste anche. Però ancora, la condizione è che non c'è l'essere, e non che c'è il non essere, o che vi sia un nulla che sia un modo dell'essere che all'essere stesso sia in qualche modo antitetico.
Il nulla esiste nel senso che descrive la condizione di assenza di qualsiasi ente in un certo contesto. Il contesto però può anche essere un contesto temporale, come quando ci riferiamo a prima della nascita dell'universo.
Io penso che Carnap si avvicina a quanto io affermo, dicendo che il nulla è la negazione di una possibilità determinata. Ovvero "non vi è nulla che abbia questa caratteristica" vale "non esiste un x tale che x abbia una certa proprietà". Carnap dice che con questa affermazione l'esistenza viene negata quando potrebbe esservi, che è una formulazione che secondo me descrive nei termini della logica formale il concetto di assenza. Negare l'esistenza quando è possibile che l'esistenza vi sia, mi sembra una definizione logico-matematica di assenza, perché è atta ad escludere ogni riferimento all'aspettativa, che è un concetto psicologico, dal concetto di assenza.
Il problema è che Carnap non coglie il fatto che se facciamo un'analisi linguistica del concetto di nulla, ciò che si dichiara che non esiste, va sempre messo in relazione con un determinato contesto, perché descrive l'assenza di un intero insieme di enti sì, ma sempre in una determinata situazione. Per questo, Carnap parla di non esistenza mentre io parlo di assenza.
Io penso che la mia analisi risulti più descrittiva del significato che il termine ha nel linguaggio comune, senza per questo aprire alcuna prospettiva metafisica, perché proprio contro la metafisica è diretta l' analisi di Carnap.
Rispetto a "nulla", "niente" è in genere un termine che indica l'assenza di un insieme di enti meno ampio. Di solito si usa per indicare l'assenza, non dell' insieme universo, ma di un suo sottoinsieme. "Non c'è niente" è come dire "Non c'è nulla di ciò che stiamo cercando".
Il "non essere", considerato in senso assoluto, ovvero non posto in relazione all'essere per descrivere la sua assenza, è un concetto privo di senso. Non significa nulla.
Questa è dunque la conclusione a cui sono giunto. Il nulla deve essere considerato una condizione di assenza dell' essere e non una negazione dell' essere.
È il modo in cui si usa in italiano la parola "nulla" per descrivere assenza, a generare la falsa impressione che si usi una doppia negazione, che però stranamente in questo caso non afferma, come invece accade in altri contesti, e come sarebbe logico aspettarsi.
Questo modo di usare il termine è tuttavia giustificato, e possiamo capirlo se solo consideriamo le espressioni "significa nulla", "capisco nulla", "vedo nulla". Queste espressioni significano qualcosa solo se considerate in senso metalinguistico, ossia nel senso che la parola "nulla" sta per sé stessa, come quando chiedendo a qualcuno che parola vede scritta su un foglio di carta che gli mostro, lui mi risponde "vedo nulla", perché "nulla" è la parola che io ho scritto sul foglio. Però si capisce che in senso linguistico, "vedo nulla" è un'espressione senza significato.
D'altra parte, il problema è che "Non vedo qualcosa" significa che chi parla non vede tutto, e per dirlo descrive la sua relazione con ciò che manca. "Non vedo tutto" significa che chi parla comunque vede qualcosa, almeno una parte del tutto; ma ancora, per dirlo descrive la sua relazione con ciò che manca. Tra il riportare direttamente l'espressione di chi parla e il riportarla indirettamente è come se vi fosse uno specchio.
C'è una difficoltà oggettiva nel descrivere l'assenza, e il problema è anche di capire perché gli antichi, i nostri padri, coloro che hanno iniziato ad esprimersi come noi ci esprimiamo, abbiano espresso il concetto di assenza nel modo in cui anche noi lo esprimiamo. Io non penso che lo abbiano fatto perché poco sensibili alla logica.
A me sembra, per come vivo la mia lingua, che gli antichi abbiano risolto il problema di esprimere l'assenza, usando il termine finale di un processo di esclusione, e non utilizzando in modo improprio una doppia negazione.
Pensiamo alla situazione di un avaro che controlla le sue monete in una scatola e c'è qualcuno che gliele sottrae. "Non vedo una moneta". "Non vedo due monete". "Non vedo tre monete". "Non vedo nessuna moneta". Come dire "Non vedo nemmeno una moneta", o "Non vedo sia pure una sola moneta", "Non vedo non anche una sola moneta". A me sembra che "nessuna" voglia dire proprio questo, "non anche una sola", e che non vi sia questa fantomatica doppia negazione. E questo perché "non anche una sola" esprime "sia pure una sola", anche se per esprimerlo usa una negazione.
Per come io lo sento, "non vedo nulla", significa "non vedo nemmeno una cosa", o "non vedo perfino anche una sola cosa".
"Non vedo nulla" significa "non vedo fino a oltre una parte minima di essere" e potrebbe essere reso in questo modo "non vedo, non una parte anche minima di essere". "Nulla" per come io lo sento, significa "non una parte anche minima di essere".
Rivolgendomi a Fredegiso di Tours, dico che quando leggiamo che Dio ha creato il mondo dal nulla, dobbiamo intendere da "non una parte anche minima di essere". Sono sicuro che a lui gli piacerebbe una cifra (per chi non è romano, "proprio tanto").
Ugualmente, "Non c'è nessuno" significa che non c'è "non fino anche una sola persona", "Non c'è, non anche una sola persona". Come dire che non solo non c'è qualcosa o qualcuno che eventualmente si cerca, ma perfino anche una sola altra persona.
Questa che ho descritto è una considerazione introspettiva. Mi viene dalla riflessione sulla mia percezione. Quello che ho descritto è ciò che io capisco quando sento queste espressioni della lingua italiana, e quello che io intendo quando io stesso le uso.
Io non giungo a questa conclusione facendo un'analisi strutturale del linguaggio, ma procedo da un'analisi semantica. Io descrivo il significato che giunge alla mia coscienza. Io sento "Non vi è nulla", come "non vi è fino alla mancanza totale". Questo è quanto rispondo a coloro che mi chiedono "Come fai a dirlo?", sottointendendo che la mia affermazione non abbia fondamento.
È qualcosa che mi viene da dire perché parlo italiano, perché ho una cultura italiana, perché dell' italiano capisco il senso, e mi sono soffermato ad analizzare questo senso che capisco.
Se non fosse come dico io, sarebbe troppo strano questo fatto che in noi italiani, in questi casi la doppia negazione non produce mai, in alcun modo, il senso di un' affermazione, quando in altri casi invece lo produce.
Se ad esempio dico "tu non sei incapace", significa appunto che la persona a cui mi rivolgo è capace. È quello che succede anche con "Tu non sei disabile", "Tu non sei non abile al lavoro" ecc. Ma è diverso e tutt'altra cosa dal dire "Tu non sei nessuno", in cui invece si sente proprio il senso rafforzativo che io ho descritto. Il senso che trasmette è che la persona a cui ci si rivolge venga annullata dall'intera società. Giunge chiaramente, anche se può risultare difficile descriverlo a chi non sia abituato all'auto-ascolto, e che di solito infatti se ve lo conduci si arrabbia.
Ecco come rispondo a chi mi chiede come faccio a dirlo. Lo affermo in base alla mia competenza linguistica, e con gli esempi che ho prodotto, penso di aver provato a sufficienza che il senso che viene veicolato, ovvero trasmesso, è esattamente quello che io descrivo.
Ho un po' di acrimonia su questo discorso, perché alcuni di coloro che ho incontrato come insegnanti, ogni volta che ho provato a spiegare che anche in italiano una doppia negazione produce talvolta un'affermazione, mi hanno sempre stroncato: "No, in italiano una doppia affermazione non produce affermazione". Tronfi nella loro superficialità. Stroncare i discorsi degli altri senza prestare ascolto, e per di più sbagliando: li ricordo sempre con irrefrenabile antipatia. D'altra parte la mia smania di voler sempre capire a fondo, ha fatto sì che nelle valutazioni scolastiche io fossi considerato quasi sempre mediocre, giammai meritevole certamente. I meritevoli sono quasi sempre assolutamente acritici, appunto perché per essere davvero meritevoli, non devono essere fonte di disagio per coloro che li valutano; li devono far sentire gratificati.
Riassumendo e ampliando, io sostengo che, non da un punto di vista strutturale, ovvero sintattico, ma semantico, noi italiani quando esprimiamo il concetto di assenza di persone dicendo "non c'è nessuno", intendiamo "non c'è, non un solo uno", perché dire "non c'è uno" potrebbe significare che ad essere assente è qualcuno in particolare che colui che parla sta cercando. A riprova di ciò, aggiungo che per dire che non c'è nessuno, possiamo anche dire "non c'è un'anima viva", che è un'espressione completamente esclusiva, proprio come "non c'è nessuno".
L'ho sentito dire a volte con marcato disappunto da qualche ragazzetta: "Siamo arrivati lì, e c'era il deserto. Non c'era un'anima viva. Sai che vuol dire non un'anima viva? Proprio nessuno". Simpatiche fanciulle, così graziose nelle loro aspettative. Ho sempre trovato assai gradevole il loro conversare, quando era così spontaneo.
Eccolo il significato da un'analisi semantica. "Non c'era nessuno" ovvero "Non c'era, non un anima". Come dire che non solo non si trovano elementi tra quelli appartenenti ad un determinato insieme umano, come è il caso se dico "Non c'erano i miei ex compagni di scuola", ma non si trovano elementi appartenenti a un insieme umano qualsiasi. Non solo non è illogico ma produce un'enfasi molto descrittiva della condizione di assenza. Da un punto di vista sintattico non andrebbe considerata come una doppia negazione, ma come un rafforzativo, la cui funzione è di escludere ogni relativizzazione.
Poi dipende dall'universo della conversazione. Se con qualcuno, io sto parlando degli amici che con lui ho in comune, con "Non c'era nessuno", si intende "nessuno dei nostri amici". Ma perché quello è l'insieme universo in quel discorso.
Vorrei concludere dicendo che secondo me anche parlare di doppia negazione è piuttosto confusivo. Si dovrebbe parlare di negazione della negazione, e in questo modo appare chiaro che negando una negazione si debba produrre sempre un' affermazione. Se dico "Non vedo non anche una sola persona", la prima negazione è riferita a vedere, e quindi non ha la funzione di negare la seconda negazione, dove "non anche" sta per "perfino". Se invece dico "Non sei non abile al lavoro", la prima negazione ha esattamente la funzione di negare la seconda negazione. Elementare Watson (ma ne ho impiegati di anni per arrivarci).
Il punto è però anche di capire se si vuole escludere o meno la coscienza dal contesto scientifico. Secondo me non ci sono ragioni scientifiche per escluderla. Quando si tende a farlo è perché si sviluppa una cultura che è il prodotto di una società che mortifica la coscienza perché opprime la persona umana. Se lo si fa, si condurranno indagini puramente strutturali del linguaggio, giungendo a conclusioni aberranti, ovvero non descrittive. Però saranno con ogni evidenza vere, perché nessuno potrà contraddirle, perché coloro che non si ritrovano in questa mentalità alienata, verranno considerati incapaci di capire, ed esclusi dalla partecipazione al dibattito culturale, che sarà appannaggio esclusivo dei meritevoli, a cui le masse manipolate attribuiranno credito, perché accreditati dalla stessa autorità costituita che le manipola tenendole nell'ignoranza.
A me tuttavia, confrontando le mie conclusioni con quelle dei filosofi che mi hanno preceduto, sembra di aver sviluppato una chiarezza maggiore di quanto sia stato fatto in precedenza, riguardo al concetto di nulla.
Mi sembra di aver sviluppato chiarezza, facendo distinzione tra gli aspetti psicologici e quelli empirici, entrambi presenti nell'uso del linguaggio, e poi anche nel riportare il concetto di nulla alla relazione dell'essere con un contesto. Questo è diverso da quanto ha fatto Carnap, che ha riportato il concetto di nulla alla negazione di una possibilità determinata, analizzando il nulla, ancora in senso assoluto.
Da un punto di vista linguistico mi sembra invece fondamentale avere sostituito il concetto di doppia negazione, con quello di negazione della negazione. Come mi sembra fondamentale l'analisi semantica dei termini della lingua italiana che esprimono assenza.
Ma se ho potuto sviluppare chiarezza è stato perché ho tenuto conto del pensiero di chi mi ha preceduto, non allo scopo di tracciare un'astratta l'evoluzione del pensiero filosofico, in assenza di un punto di vista, ma allo scopo di capire quanto il loro pensiero rispondesse alle mie esigenze conoscitive. Questo era quello che sempre andavo dicendo in giro quando ero giovane, senza mai essere preso in considerazione da nessuno, ma visto come un povero spostato, uno un po' "fuori di testa" che non avrebbe mai concluso nulla.
In effetti forse ai miei contemporanei delle conclusioni a cui sono giunto non interessa effettivamente nulla, ma io mi sento discendente legittimo dei filosofi che mi hanno preceduto, perché ho sviluppato il loro pensiero, e sono convinto che se incontrassi, per esempio, Parmenide o Platone, mi esprimerebbero la loro stima e sicuramente saremmo amici, per via del fatto che con loro almeno, anche se non con i miei contemporanei che pure ai filosofi del passato dicono di rifarsi, condivido la stessa aspirazione alla chiarezza.
Io, è dai tempi delle scuole medie che rifletto su queste cose, tornandoci di tanto in quando. Quando ho cominciato avevo circa dodici anni, e se per i miei contemporanei questo non è altro che prova di malattia mentale, io mi sento piuttosto soddisfatto delle conclusioni a cui sono giunto. Mi sento una persona arrivata. Come dire "Quanto tempo è passato... Ma ci ho creduto e alla fine ce l'ho fatta!". Aggiungo "Dio, ti ringrazio".
Sono arrivato a soddisfare le aspirazioni che avevo da ragazzino, ma è una cosa che riguarda me soltanto. Infatti la società che mi circonda, anche se è senza dubbio inclusiva, in nessun altro modo è disposta ad includermi, se non come disabile psichico.
Non è proprio esaltante questo fatto, e non mi viene mitigato dall'altro fatto che io non dovrei essere considerato un disabile ma un diversamente abile. Pensarmi come a un diversamente abile, mi suggerisce l'idea che tra il mio sistema di pensiero e quello dei filosofi comunemente abili, forse filosofi di serie prodotti da un sistema educativo da cui mi sono trovato respinto, non vi sia possibilità dialogo, come effettivamente sembra proprio che non vi sia.
Io tuttavia riguardando i filosofi del passato, rilevo che sebbene molti dei miei contemporanei con cui sono venuto in contatto o il cui pensiero ho analizzato, siano pieni zeppi di nozioni, il loro sistema di pensiero è risultato nel mio giudizio troppo carente, ed è per questo che ho sentito l'esigenza di dare sviluppi che fossero miei propri. Sembra che la disistima sia reciproca, ma a chi può interessare? "Se tu così sei contento, va bene".
Il problema è che mi sento circondato da gente eccessivamente rozza (e talvolta anche piuttosto crudele). Non per offendere, ma la maggior parte della gente sembra assatanata. E tuttavia questo è quanto era stato predetto, appunto perché i figli del Iddio Vivente non fossero presi dallo sconforto.
Maurizio Proietti iopropars
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La soluzione che si avanza Dipinto digitale di Maurizio Proietti iopropars |
martedì 10 settembre 2024
The new normal
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Pioggia verso Napoli Foto di Maurizio Proietti iopropars |
La nuova normalità
Eccoci eccoci, che sono iniziate le piogge torrenziali, e improvvisamente arriverà poi il freddo quello vero, quello con i ghiaccioli sotto alla punta del naso, quello con i mini condizionatori a pompa di calore sulle orecchie, quello con i materassi avvolti intorno al corpo sotto i piumini e i cappotti, quello con gli orsi polari che ti passano davanti in fila al supermercato e ti guardano in cagnesco se solo osi sollevare la testa. Eh sì, quando viene il freddo gli orsi polari la fanno da padroni; per loro non occorre permesso di soggiorno, perché le pallottole degli agenti della forestale che hanno provato a sparare loro contro si gelavano a mezz'aria, e loro a quel punto si sono arrabbiati veramente. È la nuova normalità a cui ci dobbiamo abituare.
D'altra parte però pensiamoci: come non entusiasmarci per le gare di pattinaggio sul Tevere da Ponte Milvio fino alla foce? Godiamoci le discese con sci, snowboards, e slittini da Piazza Esedra fino a Piazza Venezia, e chiediamo a gran voce al Comune perché provveda agli impianti di risalita. Questa è la nuova normalità.
A questo ci dobbiamo abituare, e aspettiamo felici il disgelo, quando con nuove piogge torrenziali, i fiumi esonderanno e i praticanti del nuoto e delle altre discipline acquatiche, potranno dare prova delle loro abilità.
Arriverà poi di nuovo il caldo, quando i fornai assisteranno allo strano fenomeno del pane che si cuoce meglio fuori dal forno, e dovremo stendere i nostri panni fuori ad asciugare con il contaminuti per evitare che si brucino
. Che altro possiamo dire se non che questa è la vita con la sua varietà?
La vita ha prodotto questo "new normal". Non abbiamo potuto fare tuttavia un sondaggio di opinione per saggiare il grado di soddisfazione della gente riguardo al new normal, perché la totalità dei soggetti intervistati si arrabbiava ferocemente contro gli intervistatori non appena questi ponevano loro la domanda, e abbiamo avuto paura per l'incolumità dei nostri giornalisti. Pensiamo che questa ira possa essere una conseguenza del Covid 19. È al momento questa l'ipotesi più accreditata.
Maurizio Proietti iopropars
sabato 7 settembre 2024
Gli ultimi (testimonianza di fede)
sabato 31 agosto 2024
L' alienazione nella vanagloria
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Se il portone non fosse chiuso dipinto digitale di Maurizio Proietti iopropars |
Una realtà alienata
Cosa vuol dire una realtà
Sociale alienata?
È la verità che mi sta a cuore,
E non m'importa della vostra gloria.
Non m'importa di questa gloria
Che voi vi attribuite,
Gli uni agli altri,
Che a vicenda vi tributate
Per i vostri luoghi comuni,
Queste frasi ad effetto
Che voi condividete
Senza smuovere nulla.
Pubblici riconoscimenti
Voi cercate, che sono necessari
Laddove sempre di più
Nella cultura che portate avanti
Decade la facoltà di giudizio.
Io a cuore ho la verità
E voi mi ignorate perché
Lontane dal luogo comune
Sono le mie sentenze,
E l' originalità
Suscita in voi l' invidia,
Non vi interessa afferrarne
Il senso, perché voi non siete
Alla ricerca di senso,
E per questo condividete
Frasi ad effetto per fare colpo,
Per costruire per voi stessi
La vostra immagine sociale,
E non per migliorare
Il modo di stare insieme agli altri,
Che è invece ciò di cui vi fate
Fregio, per cui cercate
Dagli altri ammirazione,
Cercando però di rendere
In sostanza migliore solo
La vostra personale condizione,
Mentre nulla cambia intorno a voi.
Non ha senso per me rapportarmi
A voi che non siete interessati
A costruire un mondo migliore,
Ma solo ad essere considerati
Più importanti in questo mondo.
È questa vostra
Una realtà alienata, una realtà
In cui diventa quello che si dice
Un ornamento, dunque perde senso.
È nel bene che si trova il senso;
Questa condizione diventa
Alienata per via del fatto
Che il bene non è oggetto
Di una ricerca autentica.
Maurizio Proietti iopropars
L'autenticità dell' essere
Io che ho disperato
Io che sono stato alla ricerca
Dell' autenticità dell' essere,
Mi sento di affermare
Che è eterna
L' autenticità dell' essere,
Che l' autenticità
Dell' essere è amore.
Maurizio Proietti iopropars
Se il portone non fosse chiuso
"Se il portone non fosse chiuso" è il titolo del dipinto digitale con cui accompagno le poesie del presente blog. Questo titolo si riferisce al fatto che non sempre dobbiamo trovare che tutte le porte siano aperte, ossia di non avere ostacoli, per scegliere una meta, che anzi gli stessi ostacoli che ne limitano l'accesso, nascondono alla nostra visuale. Così è per l'autenticità dell'essere, che è la nostra propria autenticità nel determinare il corso della nostra esistenza in vita. Questa stessa autenticità è resa difficile a volte dal tessuto stesso delle nostre relazioni umane, nelle quali soltanto però ci è possibile ritrovarla, se come io sostengo, questa autenticità è amore.
Io questo ho creduto e continuo a credere, che questo paradosso si risolva solo nella fede (e ancora una volta rendo omaggio al profondo filosofo danese Søren Kierkegaard).
Ora la vanagloria, è appunto la motivazione che ha spinto i farisei, a far morire il Cristo Gesù sulla croce.
Io penso che anche la smodata brama di ricchezza e di potere, che muove i più ricchi in questa nostra società neoliberista, possa essere riportata alla ricerca della vanagloria.
Maurizio Proietti iopropars
lunedì 19 agosto 2024
Verso la meta
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Verso la meta Dipinto digitale di Maurizio Proietti iopropars Verso la meta "Conosci te stesso" è il fulcro della lezione di Socrate; una meta da tenere sempre presente, da non perdere d'occhio. Possiamo porre problemi di metodo, ma sicuramente per l' essere umano questa è la meta. Come cristiano io posso affermare che la mia meta sia quella di conoscere Dio; certamente. Eppure questo chiaramente intuisco, che i due percorsi non sono distinti. D'altra parte se parliamo di metodo, come più volte ho già affermato nei miei post, è la tensione verso l'obbiettivo che ci permette di determinare il metodo; non si può determinare il metodo di un qualsiasi compito che ci prefiggiamo, a prescindere dalla sua esecuzione. È semplicemente necessario confrontarsi con la realtà per sapere come operare su di essa. Su che base si potrebbe costruire il metodo se non ci si confronta con lo scopo che si persegue? Se non ci si confronta con lo scopo, si può solo costruire un sistema metafisico. Io in questo senso posso affermare che in me i due obbiettivi di conoscere me stesso e di conoscere Dio, per quanto ovviamente distinti, si praticano in un unico percorso di vita. Conoscere sé stessi e conoscere Dio sono due obbiettivi che delineano la nostra vita, e richiedono le medesime scelte e le medesime azioni; richiedono per essere portati avanti, di aderire agli stessi principi. Sono due forme di conoscenza che plasmano il nostro modo di essere, e che non possono essere disgiunte dall' etica. D'altra parte, tuttavia, nemmeno l' organizzazione sociale può essere disgiunta dall' etica, proprio perché l' etica comprende quell' insieme di principi su cui si basa la convivenza civile. Dunque in questo senso si può dire che un periodo storico di un popolo può essere più o meno buio o luminoso. Il mio giudizio sul presente periodo storico, a livello mondiale, ma in particolare riguardo all' Italia, è che questo sia un periodo piuttosto buio. È un periodo storico che si potrebbe definire dell' "Anticiviltà", per cui potrebbe essere anche quello dell' Anticristo. È questo un periodo storico in cui l' individualismo sfrenato viene propagandato come spinta propulsiva della produzione, e dunque del benessere; ma poi anche, in ultima analisi, come fondamento della civiltà, perché si dice che dove le pance sono vuote, anche le teste non possono pensare. In tal modo viene propagandata questa utopia della meritocrazia, che sarebbe un sistema sociale in cui coloro che maggiormente si impegnano, ottengono riconoscimenti e ricompense da parte della società. Si riconoscerebbe il merito di chi si impegna. A me sembra che in tutto ciò sia presente una contraddizione nei presupposti etici, che si rivela non poco disfunzionale. La contraddizione nell' etica, è che questa valorizzazione del merito non si fonda su valori di solidarietà, ma sulla contemporanea valorizzazione dell' individualismo anche sfrenato. Si sostiene più o meno velatamente, che la solidarietà offusca l' impegno individuale impedendo che venga remunerato. Però in questo modo ad essere esaltato è l' impegno piuttosto di coloro che sono scarsamente interessati al benessere collettivo, e sono invece motivati da desiderio di ricevere riconoscimenti e dal proprio tornaconto. Questa circostanza porta alla formazione di individui piuttosto vani. Sono individui che quando si tratta di produrre opere che siano realmente a vantaggio della collettività, sono molto protesi alle apparenze e poco alla sostanza; semplicemente perché vengono cresciuti nell' egoismo, nel disinteresse per il benessere della collettività. Viene disprezzato quel sentimento della collettività che fonda la convivenza civile. Si dice che quello che qualcuno fa per sé stesso, in quanto aumenta la ricchezza globale, è ciò che realmente torna a vantaggio della società nel suo complesso. A me tutto questo sembra piuttosto una frode, perché chi lavora per sé stesso, riceve la propria ricompensa da ciò che produce per lui il suo lavoro, mentre il merito andrebbe semmai attribuito a chi rinuncia al proprio vantaggio in favore di quello della collettività. Ora poi, se si sostiene che però la situazione è tale che l' impegno individuale in un qualsiasi lavoro, comunque non produce risultati per chi vi si impegna, io dico che qui il discorso non riguarda il merito ma l' equità nella retribuzione. In questa confusione terminologica e ancora prima ideologica, hanno preso forma atteggiamenti rivolti a costruire un prestigio sociale che si lega allo svolgimento di una qualsiasi professione. Questi atteggiamenti sono costruiti nella mimesi del modello medico. Il medico viene cioè preso come modello ideale di figura professionale. Il problema è che la grade maggioranza delle persone viene ad essere poco abituata e poco incline a forme di pensiero più profondo. Per questo vi è incapacità di distinguere le condizioni che permettono a certe figure professionali, come i medici, di portare avanti correttamente tutto ciò che è richiesto dalla loro professione, da ciò che conferisce loro prestigio sociale, e di cui il professionista serio non si dovrebbe curare. Abbiamo che la maggior parte della gente sembra essere animata principalmente dalla smania di ottenere prestigio sociale, e risulta molto spesso priva di intendimento, ossia non ha cognizione della natura delle cose e di come rapportarsi con esse. Si fanno strada individui infantili pieni di spocchia, che vengono portati avanti da coloro che ne condividono i valori. Prendiamo come esempio la diagnosi medica. È abbastanza ovvio che questa richiede competenze mediche e sia dunque prerogativa dei medici. Se applichiamo il modello medico alla psicologa, si possono però ottenere conseguenze aberranti. Non è poca la gente che conosco, che nella mimesi del modello medico, pensa che la consapevolezza debba essere prerogativa esclusiva dello psicologo o dello psicoterapeuta. In questo modo si tende ad espropriare la persona umana, di quella che è una sua funzione fondamentale. Il compito dello psicologo o dello psicoterapeuta dovrebbe essere invece quello di aiutare a ripristinare la funzione della consapevolezza, ove a causa di un complesso di circostanze fosse venuta a cadere, o aiutare a svilupparla dove non fosse sufficientemente sviluppata. Altrimenti sarebbe come affermare, che deve essere il fisioterapista a portare in braccio la gente ovunque questa voglia andare. Inoltre, visto che ho portato l'esempio della fisioterapia e più in generale del ruolo di aiuto al recupero di certe funzioni negli individui, aiuto che è proprio di certe figure professionali, sottolineo che anche qui c'è da considerare la specificità di queste situazioni rispetto al modello medico. Se in una cura a base di antibiotici, il paziente non deve fare altro che seguire la cura secondo le indicazioni del medico, nel percorso di recupero di una qualsiasi funzione è invece necessario che da parte della persona che richiede aiuto alla figura professionale, vi sia la tensione verso questo recupero. Il professionista diventa allora piuttosto un consulente che un curatore. In queste forme di consulenza, la misura del successo è data dalla perdita del proprio ruolo da parte del consulente. Ma dove il consulente cerca auto-gratificazione nel proprio ruolo, si produce un modello di intervento professionale che per sé stesso riduce la sua capacità di successo. Sono questi alcuni dei motivi per cui dico che la società contemporanea è organizzata e continua ad organizzarsi in forme che ostacolano il progresso degli individui verso la conoscenza di sé stessi. Eppure la meta continua a stagliarsi all' orizzonte di coloro che verso di essa sappiano orientarsi. Maurizio Proietti iopropars |
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