venerdì 20 settembre 2024

Il mito della doppia negazione


 Un annoso problema
Dipinto digitale di
Maurizio Proietti iopropars


Il mito della doppia negazione

Vi sarebbe da analizzare la questione di una supposta doppia negazione nella lingua italiana, che non produrrebbe il senso di un'affermazione. 

Questa circostanza suggerisce l'idea che la logica non sia un sistema inerente al pensiero di ogni essere umano, che da questo sistema può talvolta anche errare, ma poi rendersi conto di aver sbagliato. Prospetta l'idea di una logica che sia un sistema prodotto da qualcuno in qualche modo, e a cui si è stabilito che il pensiero si debba adeguare per poter essere razionale. Se così fosse però, io anche mi chiedo in che modo si sarebbe potuta ricavare la logica, e riconoscerla idonea a guidare il pensiero, da parte di pensatori che prima di compiere l'ardita impresa erano privi di logica.

È vero che nella storia del pensiero sono stati costruiti sistemi formalizzati di logica, come è anche quello del sillogismo, in cui si stabiliscono regole per il pensiero logico. Ma questo ha potuto essere possibile solo perché il pensiero umano era già in grado di pensare in modo logico. Un logica formalizzata dovrebbe avere la sola funzione di escludere l' errore, e non di far funzionare il pensiero umano in modi che non gli sono propri.

Il mio problema con la supposta doppia negazione nella lingua italiana, fin da una giovane età, è sempre stato questo: io, se faccio un errore logico sono in grado di accorgermene, di percepirlo come errore, e non solo di ricavarlo come errore perché non rispetta un sistema di regole con cui lo confronto. Come mai allora questa struttura sintattica della lingua italiana non mi dà il senso di un errore logico, ma la sento invece profondamente significativa? 

Io non sono proprio mai riuscito a sentirla come errore, nemmeno con esasperato sforzo.

La risposta facilona prestampata sui moduli del Ministero dell'Ignoranza ( a cui fanno capo alcuni insegnanti ) è sempre stata questa: perché siamo abituati così. Come dire "Pace, non ci va di impelagarci in questo problema". Ma perché allora vi fate fregio di essere filosofi? Guai a chiederlo, perché l'altra risposta prestampata è "Tu non sei filosofo ma soltanto pazzo".

A mio avviso vi è un'errata analisi linguistica alla base di questa supposta doppia negazione nella lingua italiana, che stranamente non produrrebbe il senso di un'affermazione, come invece proprio avviene in altri contesti di questa stessa lingua.

Io sono arrivato alla conclusione che non è corretto paragonare il "nulla" e il "niente" e il "nessuno" della lingua italiana con i termini inglesi "nobody" e "nothing", che possono essere considerati come effettive negazioni, mentre il termine "nulla", come pure gli altri due termini che ho elencato, non sono propriamente negazioni.

Io dico che il nulla è la condizione di assenza dell' essere e non la negazione dell' essere. Dire che l'essere è assente, non significa negare l'essere, ma descrivere uno stato o una condizione in un determinato contesto.

L'assenza dell'essere in un contesto, non può essere intesa come presenza del non essere in quel contesto, perché si intenderebbe qualcosa privo di senso.

Mi sembra senza dubbio più chiaro dire che prima della nascita dell'universo l' essere era assente, piuttosto che dire che vi era assenza di essere. Infatti l'assenza non può essere presente, se non nella nostra mente quando vi sia aspettativa di trovare qualcosa. La presenza dell'assenza descrive una condizione psicologica legata a una circostanza empirica.  L'assenza invece è una circostanza empirica. L'assenza è  un attributo dell'essere, che noi diamo all'essere quando lo mettiamo in relazione con un determinato contesto. 

Allo stesso modo per me in italiano, dire che non vi era nulla, risulta logicamente più corretto che dire che vi era il nulla. Infatti dire che vi era il nulla, implica affermare implicitamente che il nulla esiste. Questa - lo dico con Parmenide - è un' affermazione intrinsecamente contraddittoria, perché non si può attribuire l'essere al non essere. Però del nulla non si può dire neanche che non esiste o che non è, perché il non essere non ammette attribuzioni - e sto ancora con Parmenide.

Il non essere è la condizione in cui non vi è nulla a cui attribuire alcunché. Se intendiamo il nulla come "non essere" allora, con Parmenide, del nulla, nulla può essere detto. 

Però se analizziamo la cosa, non dal punto di vista della natura del nulla, ma da un punto di vista linguistico, o se vogliamo semantico, mi trovo invece d'accordo con Fredegiso di Tours (m. 834), che si è posto principalmente il problema dell'esistenza del nulla, e ha concluso che il nulla deve essere qualcosa.

Come Fredegiso ha affermato prima di me per il nulla, dico che il non essere è certamente qualcosa, nel senso che il termine ha un suo significato. Però aggiungo che il suo significato descrive la condizione di assenza dell' essere. Anche il termine "nulla" serve ad indicare questa condizione, che come condizione dunque esiste anche. Però ancora, la condizione è che non c'è l'essere, e non che c'è il non essere, o che vi sia un nulla che sia un modo dell'essere che all'essere stesso sia in qualche modo antitetico.

Il nulla esiste nel senso che descrive la condizione di assenza di qualsiasi ente in un certo contesto. Il contesto però può anche essere un contesto temporale, come quando ci riferiamo a prima della nascita dell'universo.

Io penso che Carnap si avvicina a quanto io affermo, dicendo che il nulla è la negazione di una possibilità determinata. Ovvero "non vi è nulla che abbia questa caratteristica" vale "non esiste un x tale che x abbia una certa proprietà". Carnap dice che con questa affermazione l'esistenza viene negata quando potrebbe esservi, che è una formulazione che secondo me descrive nei termini della logica formale il concetto di assenza. Negare l'esistenza quando è possibile che l'esistenza vi sia, mi sembra una definizione logico-matematica di assenza, perché è atta ad escludere ogni riferimento all'aspettativa, che è un concetto psicologico, dal concetto di assenza.  

Il problema è che Carnap non coglie il fatto che se facciamo un'analisi linguistica del concetto di nulla, ciò che si dichiara che non esiste, va sempre messo in relazione con un determinato contesto, perché descrive l'assenza di un intero insieme di enti sì, ma sempre in una determinata situazione. Per questo, Carnap parla di non esistenza mentre io parlo di assenza. 

Io penso che la mia analisi risulti più descrittiva del significato che il termine ha nel linguaggio comune, senza per questo aprire alcuna prospettiva metafisica, perché proprio contro la metafisica è diretta l' analisi di Carnap.

Rispetto a "nulla", "niente" è in genere un termine che indica l'assenza di un insieme di enti meno ampio. Di solito si usa per indicare l'assenza, non dell' insieme universo, ma di un suo sottoinsieme. "Non c'è niente" è come dire "Non c'è nulla di ciò che stiamo cercando".

Il "non essere", considerato in senso assoluto, ovvero non posto in relazione all'essere per descrivere la sua assenza, è un concetto privo di senso. Non significa nulla.

Questa è dunque la conclusione a cui sono giunto. Il nulla deve essere considerato una condizione di assenza dell' essere e non una negazione dell' essere. 

È il modo in cui si usa in italiano la parola "nulla" per descrivere assenza, a generare la falsa impressione che si usi una doppia negazione, che però stranamente in questo caso non afferma, come invece accade in altri contesti, e come sarebbe logico aspettarsi.

Questo modo di usare il termine è tuttavia giustificato, e possiamo capirlo se solo consideriamo le espressioni "significa nulla", "capisco nulla", "vedo nulla". Queste espressioni significano qualcosa  solo se considerate in senso metalinguistico, ossia nel senso che la parola "nulla" sta per sé stessa, come quando chiedendo a qualcuno che parola vede scritta su un foglio di carta che gli mostro, lui mi risponde "vedo nulla", perché "nulla" è la parola che io ho scritto sul foglio. Però si capisce che in senso linguistico, "vedo nulla" è un'espressione senza significato.

D'altra parte, il problema è che "Non vedo qualcosa" significa che chi parla non vede tutto, e per dirlo descrive la sua relazione con ciò che manca. "Non vedo tutto" significa che chi parla comunque vede qualcosa, almeno una parte del tutto; ma ancora, per dirlo descrive la sua relazione con ciò che manca. Tra il riportare direttamente l'espressione di chi parla e il riportarla indirettamente è come se vi fosse uno specchio.

C'è una difficoltà oggettiva nel descrivere l'assenza, e il problema è anche di capire perché gli antichi, i nostri padri, coloro che hanno iniziato ad esprimersi come noi ci esprimiamo, abbiano espresso il concetto di assenza nel modo in cui anche noi lo esprimiamo. Io non penso che lo abbiano fatto perché poco sensibili alla logica. 

A me sembra, per come vivo la mia lingua, che gli antichi abbiano risolto il problema di esprimere l'assenza, usando il termine finale di un processo di esclusione, e non utilizzando in modo improprio una doppia negazione.  

Pensiamo alla situazione di un avaro che controlla le sue monete in una scatola e c'è qualcuno che gliele sottrae. "Non vedo una moneta". "Non vedo due monete". "Non vedo tre monete". "Non vedo nessuna moneta". Come dire "Non vedo nemmeno una moneta", o "Non vedo sia pure una sola moneta", "Non vedo non anche una sola moneta". A me sembra che "nessuna" voglia dire proprio questo, "non anche una sola", e che non vi sia questa fantomatica doppia negazione. E questo perché "non anche una sola" esprime "sia pure una sola", anche se per esprimerlo usa una negazione.

Per come io lo sento, "non vedo nulla", significa "non vedo nemmeno una cosa", o "non vedo perfino anche una sola cosa". 

"Non vedo nulla" significa "non vedo fino a oltre una parte minima di essere" e potrebbe essere reso in questo modo "non vedo, non una parte anche minima di essere". "Nulla" per come io lo sento, significa "non una parte anche minima di essere".

Rivolgendomi a Fredegiso di Tours, dico che quando leggiamo che Dio ha creato il mondo dal nulla, dobbiamo intendere da "non una parte anche minima di essere". Sono sicuro che a lui gli piacerebbe una cifra (per chi non è romano, "proprio tanto").

Ugualmente, "Non c'è nessuno" significa che non c'è "non fino anche una sola persona", "Non c'è, non anche una sola persona". Come dire che non solo non c'è qualcosa o qualcuno che eventualmente si cerca, ma perfino anche una sola altra persona. 

Questa che ho descritto è una considerazione introspettiva. Mi viene dalla riflessione sulla mia percezione. Quello che ho descritto è ciò che io capisco quando sento queste espressioni della lingua italiana, e quello che io intendo quando io stesso le uso.

Io non giungo a questa conclusione facendo un'analisi strutturale del linguaggio, ma procedo da un'analisi semantica. Io descrivo il significato che giunge alla mia coscienza. Io sento "Non vi è nulla", come "non vi è fino alla mancanza totale". Questo è quanto rispondo a coloro che mi chiedono "Come fai a dirlo?", sottointendendo che la mia affermazione non abbia fondamento.

È qualcosa che mi viene da dire perché parlo italiano, perché ho una cultura italiana, perché dell' italiano capisco il senso, e mi sono soffermato ad analizzare questo senso che capisco. 

Se non fosse come dico io, sarebbe troppo strano questo fatto che in noi italiani, in questi casi la doppia negazione non produce mai, in alcun modo, il senso di un' affermazione, quando in altri casi invece lo produce. 

Se ad esempio dico "tu non sei incapace", significa appunto che la persona a cui mi rivolgo è capace. È quello che succede anche con "Tu non sei disabile", "Tu non sei non abile al lavoro" ecc. Ma è diverso e tutt'altra cosa dal dire "Tu non sei nessuno", in cui invece si sente proprio il senso rafforzativo che io ho descritto. Il senso che trasmette è che la persona a cui ci si rivolge venga annullata dall'intera società. Giunge chiaramente, anche se può risultare difficile descriverlo a chi non sia abituato all'auto-ascolto, e che di solito infatti se ve lo conduci si arrabbia.

Ecco come rispondo a chi mi chiede come faccio a dirlo. Lo affermo in base alla mia competenza linguistica, e con gli esempi che ho prodotto, penso di aver provato a sufficienza che il senso che viene veicolato, ovvero trasmesso, è esattamente quello che io descrivo. 

Ho un po' di acrimonia su questo discorso, perché alcuni di coloro che ho incontrato come insegnanti, ogni volta che ho provato a spiegare che anche in italiano una doppia negazione produce talvolta un'affermazione, mi hanno sempre stroncato: "No, in italiano una doppia affermazione non produce affermazione". Tronfi nella loro superficialità. Stroncare i discorsi degli altri senza prestare ascolto, e per di più sbagliando: li ricordo sempre con irrefrenabile antipatia. D'altra parte la mia smania di voler sempre capire a fondo, ha fatto sì che nelle valutazioni scolastiche io fossi considerato quasi sempre mediocre, giammai meritevole certamente. I meritevoli sono quasi sempre assolutamente acritici, appunto perché per essere davvero meritevoli, non devono essere fonte di disagio per coloro che li valutano; li devono far sentire gratificati.

Riassumendo e ampliando, io sostengo che, non da un punto di vista strutturale, ovvero sintattico, ma semantico, noi italiani quando esprimiamo il concetto di assenza di persone dicendo "non c'è nessuno", intendiamo "non c'è, non un solo uno", perché dire "non c'è uno" potrebbe significare che ad essere assente è qualcuno in particolare che colui che parla sta cercando. A riprova di ciò, aggiungo che per dire che non c'è nessuno, possiamo anche dire "non c'è un'anima viva", che è un'espressione completamente esclusiva, proprio come "non c'è nessuno". 

L'ho sentito dire a volte con marcato disappunto da qualche ragazzetta: "Siamo arrivati lì, e c'era il deserto. Non c'era un'anima viva. Sai che vuol dire non un'anima viva? Proprio nessuno". Simpatiche fanciulle, così graziose nelle loro aspettative. Ho sempre trovato assai gradevole il loro conversare, quando era così spontaneo.

Eccolo il significato da un'analisi semantica. "Non c'era nessuno" ovvero "Non c'era, non un anima". Come dire che non solo non si trovano elementi tra quelli appartenenti ad un determinato insieme umano, come è il caso se dico "Non c'erano i miei ex compagni di scuola", ma non si trovano elementi appartenenti a un insieme umano qualsiasi. Non solo non è illogico ma produce un'enfasi molto descrittiva della condizione di assenza. Da un punto di vista sintattico non andrebbe considerata come una doppia negazione, ma come un rafforzativo, la cui funzione è di escludere ogni relativizzazione. 

Poi dipende dall'universo della conversazione. Se con qualcuno, io sto parlando degli amici che con lui ho in comune, con "Non c'era nessuno", si intende "nessuno dei nostri amici". Ma perché quello è l'insieme universo in quel discorso. 

Vorrei concludere dicendo che secondo me anche parlare di doppia negazione è piuttosto confusivo. Si dovrebbe parlare di negazione della negazione, e in questo modo appare chiaro che negando una negazione si debba produrre sempre un' affermazione. Se dico "Non vedo non anche una sola persona", la prima negazione è riferita a vedere, e quindi non ha la funzione di negare la seconda negazione, dove "non anche" sta per "perfino". Se invece dico "Non sei non abile al lavoro", la prima negazione ha esattamente la funzione di negare la seconda negazione. Elementare Watson (ma ne ho impiegati di anni per arrivarci).

Il punto è però anche di capire se si vuole escludere o meno la coscienza dal contesto scientifico. Secondo me non ci sono ragioni scientifiche per escluderla. Quando si tende a farlo è perché si sviluppa una cultura che è il prodotto di una società che mortifica la coscienza perché opprime la persona umana. Se lo si fa, si condurranno indagini puramente strutturali del linguaggio, giungendo a conclusioni aberranti, ovvero non descrittive. Però saranno con ogni evidenza vere, perché nessuno potrà contraddirle, perché coloro che non si ritrovano in questa mentalità alienata, verranno considerati incapaci di capire, ed esclusi dalla partecipazione al dibattito culturale, che sarà appannaggio esclusivo dei meritevoli, a cui le masse manipolate attribuiranno credito, perché accreditati dalla stessa autorità costituita che le manipola tenendole nell'ignoranza.

A me tuttavia, confrontando le mie conclusioni con quelle dei filosofi che mi hanno preceduto, sembra di aver sviluppato una chiarezza maggiore di quanto sia stato fatto in precedenza, riguardo al concetto di nulla.

Mi sembra di aver sviluppato chiarezza, facendo distinzione tra gli aspetti psicologici e quelli empirici, entrambi presenti nell'uso del linguaggio, e poi anche nel riportare il concetto di nulla alla relazione dell'essere con un contesto. Questo è diverso da quanto ha fatto Carnap, che ha riportato il concetto di nulla alla negazione di una possibilità determinata, analizzando il nulla, ancora in senso assoluto. 

Da un punto di vista linguistico mi sembra invece fondamentale avere sostituito il concetto di doppia negazione, con quello di negazione della negazione. Come mi sembra fondamentale l'analisi semantica dei termini della lingua italiana che esprimono assenza.

Ma se ho potuto sviluppare chiarezza è stato perché ho tenuto conto del pensiero di chi mi ha preceduto, non allo scopo di tracciare un'astratta l'evoluzione del pensiero filosofico, in assenza di un punto di vista, ma allo scopo di capire quanto il loro pensiero rispondesse alle mie esigenze conoscitive. Questo era quello che sempre andavo dicendo in giro quando ero giovane, senza mai essere preso in considerazione da nessuno, ma visto come un povero spostato, uno un po' "fuori di testa" che non avrebbe mai concluso nulla.

In effetti forse ai miei contemporanei delle conclusioni a cui sono giunto non interessa effettivamente nulla, ma io mi sento discendente legittimo dei filosofi che mi hanno preceduto, perché ho sviluppato il loro pensiero, e sono convinto che se incontrassi, per esempio, Parmenide o Platone, mi esprimerebbero la loro stima e sicuramente saremmo amici, per via del fatto che con loro almeno, anche se non con i miei contemporanei che pure ai filosofi del passato dicono di rifarsi, condivido la stessa aspirazione alla chiarezza.

Io, è dai tempi delle scuole medie che rifletto su queste cose, tornandoci di tanto in quando. Quando ho cominciato avevo circa dodici anni, e se per i miei contemporanei questo non è altro che prova di malattia mentale, io mi sento piuttosto soddisfatto delle conclusioni a cui sono giunto. Mi sento una persona arrivata. Come dire "Quanto tempo è passato... Ma ci ho creduto e alla fine ce l'ho fatta!". Aggiungo "Dio, ti ringrazio".

Sono arrivato a soddisfare le aspirazioni che avevo da ragazzino, ma è una cosa che riguarda me soltanto. Infatti la società che mi circonda, anche se è senza dubbio inclusiva, in nessun altro modo è disposta ad includermi, se non come disabile psichico. 

Non è proprio esaltante questo fatto, e non mi viene mitigato dall'altro fatto che io non dovrei essere considerato un disabile ma un diversamente abile. Pensarmi come a un diversamente abile, mi suggerisce l'idea che tra il mio sistema di pensiero e quello dei filosofi comunemente abili, forse filosofi di serie prodotti da un sistema educativo da cui mi sono trovato respinto, non vi sia possibilità dialogo, come effettivamente sembra proprio che non vi sia. 

Io tuttavia riguardando i filosofi del passato, rilevo che sebbene molti dei miei contemporanei con cui sono venuto in contatto o il cui pensiero ho analizzato, siano pieni zeppi di nozioni, il loro sistema di pensiero è risultato nel mio giudizio troppo carente, ed è per questo che ho sentito l'esigenza di dare sviluppi che fossero miei propri. Sembra che la disistima sia reciproca, ma a chi può interessare? "Se tu così sei contento, va bene". 

Il problema è che mi sento circondato da gente eccessivamente rozza (e talvolta anche piuttosto crudele). Non per offendere, ma la maggior parte della gente sembra assatanata. E tuttavia questo è quanto era stato predetto, appunto perché i figli del Iddio Vivente non fossero presi dallo sconforto.

Maurizio Proietti iopropars 

La soluzione che si avanza
Dipinto digitale di 
Maurizio Proietti iopropars


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