sabato 30 luglio 2022

Pertanto la mia poesia


Pertanto la mia poesia


A che serve
Ascoltare e osservare e provare emozioni?
A che serve sentire e descrivere
Anche bene ciò che si prova
E renderlo in versi?
A che serve 
Se questo non porta
A migliorare se stessi?
Sempre cercare, ma anzi protendersi
A migliorare sé stessi:
Questo dà senso alla vita,
Perché questo si chiama saggezza,
Perché questo significa amare
Con tutte le forze il nostro Creatore.
Pertanto la mia poesia
Anche quando è profana
Vuole cantare
Inni di lode al nostro Creatore,
A colui che giurò nel suo sdegno
"Non entreranno nel mio riposo".
Il suo riposo voglio conoscere,
Realizzando in me la sua opera,
Rendendo in questo modo
A Lui la gloria.

Maurizio Proietti iopropars
 

mercoledì 27 luglio 2022

Generale dietro la collina

Vista da un treno.
Foto di iopropars


Viaggiando in treno, mentre guardavo il paesaggio, mi è venuta in mente la canzone Generale, di Francesco De Gregori, e mi sono affrettato a scattare la foto che introduce il presente post. Riporto, a seguire, di quella canzone i versi che maggiormente associo al momento in cui ho scattato la foto.

Generale queste cinque stelle

'Ste cinque lacrime sulla mia pelle

Che senso hanno dentro al rumore di questo treno?

Un'emozione mi ha attraversato in quel momento, penso legata a una guerra in cui inaspettatamente e in modo mascherato siamo entrati.

Di questi versi dico che è come chiedersi se i morti in guerra siano realmente necessari alla pace, o se sono ferite laceranti che sta alla pace rimarginare. I due possibili sensi sono questi. Il treno di cui parlano i versi è il treno che riporta i soldati verso casa alla fine della guerra. Le cinque stelle simboleggiano le medaglie al valor militare per i cinque figli di una contadina, "partiti e non ancora tornati".

Mi fermo a spiegare il senso della metafora, perché talvolta si tende più ad accarezzare il fascino di come una metafora riesce a parlarci, che a soffermarci sul senso di ciò che ci dice. Si viene in tal modo a perdere l'occasione per cui la poesia possa operare in noi un cambiamento significativo, così che solo superficialmente viene a toccarci, senza trasformare il nostro modo di reagire alle circostanze con cui la vita ci pone a confronto.

Non desidero che di me si pensi, tuttavia, che se io spiego una poesia, lo faccio partendo da un ragionamento sul testo. Il percorso che faccio, invece, è di esporre il significato che la poesia mi comunica. È dopo, che cerco in descrivere in che modo il testo mi comunica quel significato, allo scopo di dimostrare che il significato che io espongo, è proprio quello che la poesia comunica.

Ciò che io sostengo è che per capire l'opera d'arte bisogna aprirsi all'ascolto dell'opera d'arte, altrimenti l'opera d'arte diventa una specie di gioco enigmistico da risolvere. Bisogna lasciare che l'opera d'arte susciti in noi i sentimenti che è in grado di suscitare, in quanto opera d'arte. Capire l'opera d'arte è innanzitutto una questione di empatia.

La metafora ci parla perché riesce a muovere le nostre emozioni. Io, ad esempio, prima ho usato l'espressione "accarezzare il fascino di come una metafora riesce a parlarci", per indicare un modo in cui si entra in rapporto con la nostra reazione emotiva di restare affascinati. Io ho usato la metafora di una modalità di relazione interpersonale, quella di accarezzare, per descrivere una reazione narcisistica che può occorrere nella fruizione dell'opera d'arte. Quando dico che si "accarezza il fascino", evoco, anziché soltanto dichiararla, la relazione affettiva che si instaura con una reazione emotiva, e cioè con una parte di sé. Si distoglie l'attenzione dal messaggio, dall'emozione che ci ha suscitato, per ammirare il modo in cui il messaggio è stato comunicato. E questa ammirazione è pure un'emozione, ma un'emozione diversa da quella che il messaggio ci aveva comunicato. E a volte le due emozioni si mescolano.

Se noi però ci perdiamo nell'ammirazione per il messaggio, perdendone di vista il contenuto, è perché vorremmo far nostra quella forza nel comunicare, non perché risponde alle nostre esigenze espressive, ma perché vorremmo che fosse tributata a noi l'ammirazione che ci ha suscitato. L'efficacia comunicativa di una metafora, ci può portare a guardare quella metafora come un oggetto che se assunto, è atto a soddisfare il nostro narcisismo. Se si dà corso a questa reazione, ci si distoglie da un processo di crescita personale, che l'opera d'arte è invece in grado di promuovere.

Parlando di guerra e parlando dell'interpretazione dell'opera d'arte, ho parlato in entrambi i casi della vanagloria, che è ciò che toglie il senso, sia alla comunicazione, che alla nostra stessa vita.

Maurizio Proietti iopropars


Riporto di seguito l'intero testo della canzone, come è possibile trovarlo in rete:

Generale
Brano di Francesco De Gregori

Generale, dietro la collina
ci sta la notte crucca e assassina,
e in mezzo al prato c'è una contadina,
curva sul tramonto sembra una bambina,
di cinquant'anni e di cinque figli,
venuti al mondo come conigli,
partiti al mondo come soldati
e non ancora tornati.

Generale, dietro la stazione
lo vedi il treno che portava al sole,
non fa più fermate neanche per pisciare,
si va dritti a casa senza più pensare,
che la guerra è bella anche se fa male,
che torneremo ancora a cantare
e a farci fare l'amore, l'amore delle infermiere.

Generale, la guerra è finita,
il nemico è scappato, è vinto, è battuto,
dietro la collina non c'è più nessuno,
solo aghi di pino e silenzio e funghi
buoni da mangiare, buoni da seccare,
da farci il sugo quando è Natale,
quando i bambini piangono
e a dormire non ci vogliono andare.

Generale, queste cinque stelle,
queste cinque lacrime sulla mia pelle
che senso hanno dentro al rumore di questo treno,
che è mezzo vuoto e mezzo pieno
e va veloce verso il ritorno,
tra due minuti è quasi giorno,
è quasi casa, è quasi amore.

                                            

lunedì 11 luglio 2022

Storie di alienazione quotidiana



È vero che sono un perdente. Ma certo! Su questo punto, a coloro che lo pensano, do senza alcun dubbio ragione. Ma sebbene sia vero che loro sono efficienti e noialtri no - io e quelli come me - noi prevarremo perché siamo intelligenti. E a chi si chiede in cosa possa consistere un'intelligenza che non determina l'efficienza, io rispondo sicuro che è intelligenza pensare che verità, e giustizia, e misericordia, siano più importanti dell'efficienza. 
Con la verità riusciremo a smontare il loro mondo costruito sulla menzogna. Smantelleremo questa loro realtà sociale, organizzata in modo da escludere l'intelligenza, che sostituiscono con lo sterile calcolo. Solo il calcolo serve ai mercanti che fanno di tutto mercato, e così si pretende che l'intelligenza sia calcolo. Adoratori che sono del dio denaro, che in passato si chiamava Mammona, un demone che esiste per chi se lo crea, perché è un modo di essere della mente.
È quanto mi viene da pensare ripensando a un'interazione che mi è capitato di avere con un cassiere di un grande magazzino di abbigliamento. 
 Stavo appunto in fila per pagare, dopo aver effettuato acquisti nel grande magazzino, e quando è stato il mio turno e mi sono avvicinato alla cassa, il cassiere mi ha salutato cordialmente. Ha  poi detto qualcosa, e l'ha detto facendo capire molto bene che fosse omosessuale, modulando inequivocabilmente in un certo modo la voce. Mi sembra che mi abbia chiesto se avessi la carta del grande magazzino, ma sembrava palese che cercasse di farmi capire che avrebbe gradito una relazione. Io sono esclusivamente eterosessuale e la cosa non ha suscitato in me alcuna reazione. Ciò che invece mi ha dato fastidio è stata la sua di reazione, quando mi ha corretto perché stavo inserendo la mia carta di credito nel POS, con il cip verso il basso anziché verso l'alto. Il tono della sua voce è diventato di dura e spietata condanna. Era un tono di voce che potrebbe essere descritto con un'espressione del tipo "essere così inetti è del tutto esecrabile", come se si fosse trovato al cospetto di un peccato mortale. Prima ancora che potesse sapere che il suo approccio sarebbe stato da me semplicemente lasciato cadere, se lo è rimangiato a fronte della mia inefficienza. A turbarmi è stata la gravità di un giudizio morale da lui espresso, per una circostanza che io ritengo assolutamente innocente.
Ciò che mi è arrivato è che quel personaggio mi abbia individuato in un primo momento come un elemento da far entrare nella dimensione della sua identità sociale, perché atto ad arricchire il suo prestigio interpersonale o il suo ideale narcisistico, e mi abbia successivamente scartato perché ha trovato in me un grave difetto, tale non solo da annullare il mio valore, ma addirittura da portare disonore. Questo è ciò che deve rappresentare, evidentemente, il mio errore, per la società di alienati a cui fa riferimento.
In questa circostanza ravviso ciò che forse in termini psicoanalitici potrebbe essere chiamato "pulsione di appropriazione". Mi viene da usare questo termine perché mi pare che la pulsione sessuale sia in questi casi messa al servizio di una pulsione diversa, atta soddisfare il bisogno di arricchire sé stessi con l'altra persona. È il fatto che quella persona abbia reagito con forza eccessiva nei miei confronti, come se io avessi commesso un'azione moralmente deplorevole, a indurmi questo pensiero.
A suscitarmi maggiore sgomento tuttavia, non è tanto l'uso che mi è apparso lui faccia della sessualità - che è piuttosto comune nella società in cui viviamo - quanto le implicazioni sul piano relazionale, di quel tipo di giudizio morale. 
Un pesante giudizio morale può essere espresso nei confronti di qualcuno che commette un atto che sia nocivo nei confronti una persona o nei confronti della collettività, e pertanto gli si fa rilevare che il suo comportamento è antisociale. Ora in nessun modo l'errore da me commesso poteva avere implicazioni morali, perché anzi era proprio nelle sue mansioni di cassiere avvisare il cliente di quell'errore. In tal modo, ad essere pervertito non era soltanto l'uso della sessualità - che rientra comunque nella sfera personale, anche se poi ha implicazioni nei confronti dei partner con cui si interagisce - ma il concetto stesso di inclusione sociale. Io sostengo che la persona che reagisce a un errore come il mio, anche peggio di come si potrebbe reagire verso chi rivolge a qualcuno un'offesa razziale, falsa il proprio giudizio morale.
Qualcuno potrebbe obbiettarmi che non esiste una morale oggettiva, e che differenti giudizi morali riguardo alle medesime circostanze, nascono da differenti culture di appartenenza. Io invece sono convinto, che sebbene questo può anche essere vero, poiché la morale è ciò che regola la vita sociale, è possibile un confronto sulla morale, che tenda a stabilire in che modo garantire all'altro pari diritti e pari dignità che a noi stessi. È in questo senso che esiste una morale oggettiva.
Io però vado ancora oltre. Infatti non ho detto che quel cassiere ha dato un falso giudizio morale, ma che ha falsato il proprio giudizio morale. Questo significa che secondo me, lui si è allontanato dal vero giudizio morale che era in grado di avvertire, per formularne un altro di tipo diverso. O se vogliamo potrei esprimere il concetto che anziché formulare il giudizio morale sensato, che sarebbe stato di capire che, in virtù della sua funzione, sarebbe stato suo dovere assistermi nell'operazione che dovevo compiere, ne ha formulato uno insensato, ritenendomi colpevole per un errore banale. 
Il giudizio morale di quel cassiere è stato falsato da una dimensione culturale in cui si  costruiscono le relazioni sociali, che è falsa perché non vi è il riconoscimento della dignità delle altre persone, che vengono asservite ai propri bisogni materiali, ma anche psicologici e intrapsichici. È all'interno di quella dimensione psicosociale che ha preso corpo il suo giudizio morale, atto ad escludermi dal suo sistema di relazioni, dopo aver cercato di includermi, perché non mi ha ritenuto funzionale ai suoi scopi, e non perché avessi commesso un'azione cattiva.
Io sono convinto della correttezza del concetto di morale come imperativo categorico formulato da Kant. Il termine "imperativo categorico" ha assunto nel linguaggio comune, il significato di un dovere a cui non è possibile sottrarsi. Ma Kant definisce invece con il termine "categorico", quell'imperativo che può essere disatteso, mentre invece definisce "ipotetico", quell'imperativo a cui non è possibile sottrarsi. Io sono convinto, al pari di Kant, che l'istanza morale sia da ogni essere umano avvertita come tale, e che tuttavia si possa tralasciare di seguirla. Io penso che però, tralasciando di dare ascolto all'imperativo morale, l'essere umano perda sé stesso, vada verso una condizione di alienazione.
Ora, quando Marx parla di alienazione nella società capitalistica, intende l'alienazione dal pieno godimento del ricavato della vendita di ciò che il lavoratore salariato produce, in quanto egli svolge il proprio lavoro, usando strumenti per la produzione che appartengono ad altri, che dal suo lavoro ricavano pertanto un profitto. I sostengo che l'ideologia neo-liberista, che ha assunto il ruolo di dottrina sociale, produce l'alienazione degli esseri umani dalla loro stessa identità più autentica, con meccanismi che vanno oltre lo sfruttamento del lavoro. È la stessa ideologia neo-liberista, che si è costretti ad assumere per poter svolgere delle funzioni nella società in cui viviamo, che produce alienazione da sé.
La grande menzogna del neo-liberismo è che la competizione sarebbe alla base della società civile, in quanto produrrebbe la spinta motivazionale alla produzione, e dunque ad emanciparsi dalla miseria materiale in cui senza una produzione efficiente si verrebbe a cadere. In realtà la civiltà, intesa come quell'insieme di circostanze che permettono la vita sociale, è per sua natura collaborazione. La vita sociale ha senso appunto perché attraverso la collaborazione possiamo ampliare le nostre possibilità umane, non solo in senso produttivo, ma anche psicologico, inteso come incremento della comprensione di noi stessi e del mondo.
È la mancanza di compassione verso l'altro in questa società di alienati, ciò che mi sembra orribile, appunto perché la compassione è un elemento naturale e fondante della condizione umana.  Si viene invece spinti a operare secondo un complesso di valori che va a sostituire i naturali valori umani, che sono tali indipendentemente dalla cultura di appartenenza. Così è disumano mangiare in abbondanza quando qualcuno vicino a noi sta morendo di fame, quale che sia la cultura a cui appartiene colui che lo fa. Per arrivare a poterlo fare bisogna alienarsi da sé. 
Io sono profondamente convinto che la compassione sia una condizione naturale e fondante in noi esseri umani, e penso che chi ne è privo lo sia perché forza sé stesso per allontanare da sé alcune sue naturali reazioni che lo renderebbero, nella sua propria valutazione, più fragile, meno potente, nella fattispecie meno efficiente nell'affrontare quella competizione sociale, sulla quale, secondo l'ideologia neo-liberista, sarebbe fondata la civiltà. 
Che le preoccupazioni del mondo fossero in conflitto con la vita spirituale, era già vero ai tempi della predicazione di Gesù, ma forse non ai livelli attuali. Attualmente l'ideologia neo-liberista ha reso ufficiale il culto di Mammona, lo ha reso religione di Stato in ogni parte del mondo. Secondo questa ideologia, per vincere la povertà, bisogna aumentare a dismisura la produzione, anche a costo di distruggere le risorse ambientali, ma al tempo stesso aumentare il divario di ricchezza tra ricchi e poveri. È un meccanismo che va analizzato, ma già a priori è a mio avviso evidente che è una menzogna ideata da gente animata da un'avidità senza fondo.
Maurizio Proietti iopropars

lunedì 4 luglio 2022

Un amore mai spento


 

                 Un amore mai spento


Non penso proprio che sia perché 

Allora noi 

Eravamo giovani.

È quell'entusiasmo che c'era,

La grande speranza 

Che si condivideva

Di poter costruire un mondo migliore,

È questo che è venuto a mancare.

Perché questo eravamo,

Eravamo la parte

Di una generazione

Che della storia sentiva

Di essere protagonista,

Tanto era forte 

La spinta ideale da noi condivisa.

Riascoltando dunque questa canzone

Che a volte cantavano alcuni di noi

E agli altri piaceva ascoltare,

Mi viene da chiedermi 

Chi si ricorda di questa canzone,

Chi la conosce,

Che fine hanno fatto coloro

Che la cantavano,

I protagonisti di un'avanguardia 

Ripiena di sentimenti che è stata dispersa.

Perché è chiaro che la società

In cui ora viviamo

Non è quella per cui lottavamo,

Non è il mondo "più giusto e più saggio"

In cui si sperava,

E che a noi tutti

Sembrava che non sarebbe

Stato possibile per noi non realizzare.

La nostra sconfitta è un richiamo

All'intelligenza e non alle armi.

Gridare la nostra rabbia non basterebbe

Come non è bastato.

Per operare

Il cambiamento sulla realtà

Bisogna comprenderla.


Maurizio Proietti iopropars

Di seguito un'altra commovente versione della stessa canzone. Commovente per quel modo di essere, in cui era cantata. A me sembra la voce di una donna che sente la forza di questa dichiarazione d'amore.


giovedì 16 giugno 2022

Qualche considerazione politica

 Tempo fa ho incontrato un marxista leninista che faceva diffusione di una pubblicazione porta a porta. Ci siamo messi brevemente a parlare, e lui mi ha invitato a partecipare a qualche riunione nella loro sede. Ci siamo scambiati anche i numeri di cellulare e io gli ho inviato il messaggio che segue su questo post. Lui a tutt'oggi non mi ha inviato alcuna risposta. Poiché tuttavia ho espresso queste mie considerazioni, e suppongo che a qualcuno potrebbero interessare, le riporto sul mio blog. Ho sostituito il suo nome con delle x, a tutela della sua privacy.

Ciao Xxxxx. Voglio spiegarti un po' come la penso, per cercare di capire insieme se possiamo arrivare a condividere la pratica politica. 

Io penso che al giorno d'oggi, una posizione teorica rigorosamente leninista non tenga conto del sostanziale fallimento della rivoluzione bolscevica. Non che lo sviluppo che Lenin ha dato al pensiero marxista non abbia raggiunto lo scopo di dare avvio e di vincere la rivoluzione, ma il sistema politico che ne è seguito si è rivelato inadatto ad appianare l'ingiustizia sociale. L'ingiustizia sociale è il fulcro del problema che porta i soggetti sociali antagonisti a voler cambiare radicalmente l'organizzazione della società in cui vivono. È facile comprendere come l'ingiustizia sociale non dipende dalla mala sorte di chi ne è vittima, ma è il risultato di un'organizzazione sociale che la rende necessaria ai danni di una certa quantità di individui che partecipano a questa organizzazione. Non vi può essere altra soluzione che la radicale ristrutturazione dei sistemi sociali che non garantiscono equità e giustizia sociale. Allora, a mio avviso, bisogna certamente vedere come la questione è stata affrontata da coloro che ci hanno preceduto , ma senza assumere un atteggiamento fideistico. Si tratta di capire eventuali errori commessi in passato, per poter operare nel presente al fine di attuare il nostro obiettivo di trasformazione e cambiamento; il nostro obiettivo rivoluzionario. Dobbiamo tenere presente, comunque, che anche noi come chi ci ha preceduto siamo fallibili, anche se questo non ci deve mai fermare dal tentare di perseguire la nostra strada, senza però mai smettere di riflettere sul nostro operato. Dobbiamo riflettervi sia in termini teorici, ma anche in termini etici. In altre parole dobbiamo stare attenti a non commettere noi stessi, in nome della rivoluzione, altre ingiustizie al pari di quelle che ci proponiamo di combattere.

In un momento di riflusso come quello presente, io penso che sia importante soprattutto muoversi su un piano culturale, in modo che chi vive una qualsiasi forma di disagio sociale, sia esso uno svantaggiato o un disadattato, capisca che è nel suo interesse rifiutare l'ideologia dominante, il cui scopo è il mantenimento dell'ordine sociale che produce la sua condizione.


Quanto riportato è quanto gli ho scritto inviandogli anche il link al presente blog. Non ho idea di cosa lui ne pensi, e il messaggio gliel'ho inviato più di due settimane fa. Posso solo dire che sento che le parole che ho riportato mi rappresentano.


Maurizio Proietti iopropars





lunedì 13 giugno 2022

Nega il logos, e vince il premio di filosofia


Consultando le notizie on-line mi sono imbattuto nella storia, quanto meno stravagante, di una studentessa italiana di quinto liceo, di cui un articolo diceva che, confutando Eraclito, aveva vinto, tu pensa, le Olimpiadi Internazionali di Filosofia, tenutesi a Lisbona. No, dico, "confutando Eraclito" si vincono le "Olimpiadi Internazionali di Filosofia". Mi sembra che qui non ci si renda nemmeno conto della statura intellettuale del pensatore che viene citato.

Non è uno scherzo, e vi fornisco i link

https://www.zazoom.it/2022-05-31/giulia-pession-a-19-anni-confuta-eraclito-e-diventa-campionessa-mondiale-di-filosofia-non-esiste/10990419/

https://luce.lanazione.it/giulia-pession-filosofia/

Innanzitutto mi pare interessante sapere perché, non le regolari Olimpiadi, ma le "Olimpiadi Internazionali"; come se vi fossero le Olimpiadi nazionali, quelle cittadine, e anche quelle di quartiere. A questo c'è una spiegazione che svelerò in seguito.

Poi c'è il giornalista autore dell'articolo, che non si rende conto del significato della parola "confutare", che implica che un'argomentazione "confutata" debba essere necessariamente respinta. Questo non sembra proprio essere il caso narrato nell'articolo, vista l'argomentazione che io definirei insensata, che la studentessa vincitrice oppone a una considerazione dell'antico pensatore. Lei semplicemente sostiene che non esiste un logos comune a tutti gli esserei umani, e che dunque ognuno ha pensieri propri.

La sciocca argomentazione di questa studentessa, è proprio in risposta all'amareggiata constatazione di Eraclito che si lamentava: "Sebbene il logos sia comune, la maggior parte delle persone vive come avesse pensieri propri". A me sembra evidente che Eraclito si lamentasse che la maggior parte dei suoi contemporanei non ragionasse, e che questa circostanza determinasse che anziché giungere a conclusioni logiche condivisibili, si giungesse a conclusioni personali e private. "Avere pensieri propri" qui si cotrappone con evidenza al "raggiungere la verità condivisibile", cosa resa possibile dal logos comune a tutti. La studentessa risponde che non c'è un logos comune ed è per questo che ognuno ha pensieri propri. 

È da fare ridere i polli, ma suscita invece sgomento perché con tale argomentazione ha vinto un premio internazionale di filosofia, e nessuno si rende conto dell'assurdità della cosa.

A me sembra anche grave che queste "Olimpiadi" di filosofia si tengano realmente e abbiano una veste ufficiale, producendo confusione sul fondamento dialogico del pensiero filosofico, che fa sì che questo non debba essere presentato in forma di competizione ma di confronto. A dimostrazione di quanto siano una cosa, non mi sento di dire "seria", ma senza dubbio "ufficiale", rilevo che anche il Ministero dell'Istruzione italiano riporta la notizia:

https://www.miur.gov.it/web/guest/-/olimpiadi-internazionali-di-filosofia-l-italia-vince-la-medaglia-d-oro-con-una-studentessa-del-liceo-classico

Da questo sito è possibile sapere chi sono gli organizzatori della bizzarra competizione:

"Le Olimpiadi Internazionali di Filosofia sono organizzate dalla Fisp (International Federation of Philosophical Societies) e sostenute dall’Unesco. Le Olimpiadi di Filosofia sono promosse e organizzate dal Ministero dell’Istruzione d’intesa con la Società Filosofica Italiana e rientrano nel Progetto della Valorizzazione delle eccellenze."

Allora si capisce che gli organizzatori della "manifestazione culturale", per così dire, chiamano "Olimpiadi di Filosofia" le selezioni nazionali per queste "Olimpidi Internazionali", dimostrando di avere anch'essi scarse capacità espressive. E sgomento nasce dal fatto che sono sostenute  dell'Unesco e organizzate da associazioni culturali internazionali e nazionali, e anche, in Italia, dal Ministero della Pubblica Istruzione.

Qui si parla addirittura di "valorizzazione delle eccellenze". Un'affermazione insensata come è quella che "non esiste il logos", va considerata evidentemente un'eccellenza. Questo dimostra che la cultura filosofica ufficiale, o se vogliamo istituzionale, è gestita da persone di cui io non dubito che siano dotate di vastissime conoscenze, ma che mostrano di non avere comprensione dei testi. Per ironia della sorte, è proprio il genere di persone contro cui Epicuro polemizzava. È ovvio, e potrebbe anche essere esilarante se non fosse drammatico, che le persone che non esercitano comprensione, ma sono ricche di dottrina perché hanno accumulato un grande bagaglio di nozioni, neghino l'esistenza di un logos comune, perché appunto esse stesse ne fanno a meno. Il problema è che senza logos non è possibile alcuna argomentazione, né alcun confronto.

Mi pare che solo senza capire cosa significhi il logos in Eraclito, si possa negare la sua esistenza, perchè ci si troverebbe in tal modo a negare la possibilità del pensiero razionale. E d'altra parte mi pare evidente che il logos di Eraclito indichi le leggi del pensiero, sebbene egli riconosca anche un logos presente in natura, ovvero delle leggi che governano il mondo naturale. 

Da uomo moderno mi sembra corretto pensare che l'universo sia governato da leggi che regolano i suoi mutamenti, e che dunque vi sia in questo senso un logos nella natura, come sosteneva Eraclito. E mi sembra corretto pensare che l'umano intelletto, a cui questo universo in qualche modo ha dato origine, sia anch'esso governato da leggi, e che vi sia dunque un logos nel pensiero umano. Mi sembra corretto pensare che tramite le proprie leggi, l'umano intelletto possa comprendere le leggi che governano l'universo, unificando in tal modo il molteplice, come sosteneva Eraclito, e capire che in esso vi sono dinamiche dovute alla coesistenza di opposti, come sosteneva Eraclito. 

Alla studentessa di quinto anno di liceo, avrei chiesto almeno di comprendere la frase citata, prima di argomentare su di essa. Almeno avrebbe dovuto capire che il logos a cui si riferisce la considerazione citata di Eraclito, indica l'elemento razionale dell'umano intelletto. Chiunque voglia argomentare, deve anche ammettere che l'umano intelletto sia governato da leggi, che rendono necessario che partendo dalle stesse premesse, ogni essere umano giunga alle stesse conclusioni. Le differenze di pensiero, talvolta apparentemente inconciliabili, possono semmai essere attribuite a differenti esperienze e patrimonio culturale, che spesso caratterizzano persone di diversa estrazione, e dunque a differenti premesse, ma mai alla non esistenza di principi comuni ad ogni umano intelletto. 

Anche La Repubblica riporta la notizia:

https://torino.repubblica.it/cronaca/2022/05/31/news/giulia_pession_valdostana_e_campionessa_mondiale_di_filosofia_ho_vinto_argomentando_su_eraclito-351927462/

Su questo giornale hanno l'accortezza di dire che la studentessa italiana ha vinto "argomentando" su Eraclito, perché è esattamente ciò che lei ha fatto. Non ha nemmeno "contraddetto" una sua sentenza, come lei afferma di aver fatto, poiché ha semplicemente espresso una tesi opposta alla sua, senza però sostenerla con alcuna argomentazione con cui contraddirla, e dunque meno che mai l'ha confutata. Tuttavia ha argomentato in un modo che rivela una non comprensione del testo sul quale ha argomentato, vincendo, ahimé, il primo premio della penosa contesa.

Volendo promuovere la filosofia e lo sviluppo del pensiero filosofico, si sarebbero potuti organizzare degli "Incontri Internazionali", in cui dei riconoscimenti e dei premi si sarebbero anche potuti assegnare, ma in cui si sarebbe tuttavia dato più rilievo al confronto che alla competizione. Il fatto che si siano invece organizzate queste "Olimpiadi Internazionali", mette in luce come l'ideologia neoliberista, che pretende che ogni aspetto della civiltà debba essere basato sulla competizione, si sia impossessata della gestione della cultura. La stessa cultura dominante, quella che viene spacciata come unica e sola cultura esistente, è una cultura mercantilistica.

È forse proprio all'interno di questa cultura mercantilistica che ci si può permettere di commentare un testo senza cercare di capirne il significato. Questo testo è per loro un prodotto che si incontra sul mercato, e questa studentessa valdostana, Giulia Pesson, ha argomentato in modo da rendere attraente ai loro occhi il suo prodotto. Riporto dall'articolo de La Repubblica

"La prova - racconta Giulia Pession - presentava quattro tracce: un frammento di Eraclito, un brano di Kant tratto dalla 'Critica del Giudizio', un altro di Hannah Arendt da 'La Banalità del male' e una citazione del filosofo cinese Laozi."

 Giulia ha scelto Eraclito: "Sono partita da una sua citazione: 'Sebbene il logos sia comune, la maggior parte delle persone vive come avesse pensieri propri'. Ho organizzato il mio testo sul fatto che non c’è un logos comune e che le persone pensano in modo diverso perché sono tutte diverse. È la grande sfida che devono affrontare le democrazie. E' stato poi molto interessante vedere come, a partire da una stessa traccia, ogni partecipante abbia argomentato in modo molto differente, e confrontarci sui diversi presupposti culturali. Non mi aspettavo che sarebbe andata così bene, ero già molto felice di aver potuto partecipare alla finale".

Sarei curioso di sapere in che modo le democrazie potrebbero affrontare la sfida della diversità, se non esistesse un logos che ci accomuna.

È senza alcun dubbio vero che le persone sono tutte diverse, ma i principi secondo cui si sviluppa il pensiero devono essere necessariamente gli stessi. Altrimenti non avrebbe alcun senso il confronto, non sarebbe possibile arrivare a un accordo, e nessuma scienza sarebbe parimenti possibile. È lo stesso principio che ci porta a distinguere il vero dal falso, rendendo tra l'altro anche efficace il nostro operare nel mondo che ci circonda, che permette il confronto tra noi esseri umani sul nostro pensiero. È questo il principio che chiamiamo "logos", che vuol dire appunto "ragione" e "discorso".

Non si può affermare che le persone sono tutte diverse, senza anche capire che tuttavia vi è anche qualcosa che tutte hanno in comune. Io per l'affermazione che non esiste il logos, sono preso da angoscia, e sostengo che è un'affermazione atta a generare angoscia, in quanto è la negazione della possibilità di ogni civiltà. Io non vedo cosa altro potrebbe fondare un accordo in seguito al confronto, se non l'unità dei principi del nostro intelletto. Laddove, poi, si giunge al confronto attraverso il sentimento che ci unisce in quanto ci riconosciamo, per quanto diversi, sostanzialmente identici.

Tuttavia bisogna ammettere che un discorso sulla diversità come quello elaborato da questa studentessa, oggi come oggi, ai tempi del "politicamente corretto", è un discorso che vende. Penso che sia questo quello che conta. Suona molto inclusivo.

Che poi la studentessa abbia un po' il vizio di argomentare usando parole che non capisce con precisione, lo dimostra quello che segue, sempre tratto da La Repubblica:

"Bisogna anche ragionare sul fatto che la scienza non sarebbe mai sorta senza le domande filosofiche: la filosofia non è assolutamente ossimorica rispetto alla scienza, anzi continua ad essere un fondamentale punto di confronto per la scienza stessa".

A parte il fatto che se non vi fosse il logos non sarebbe possibile nemmeno il pensiero scientifico, dire che la filosofia "non è ossimorica" rispetto alla scienza non significa nulla.

Per essere ossimorica la filosofia dovrebbe produrre ossimori, ovvero figure retoriche in cui elementi apparentemente in opposizione sono presenti nella stessa sentenza, del tipo "silenzio assordante". Non vedo come la filosofia potrebbe essere "ossimorica rispetto alla scienza". Penso che quello che la studentessa abbia voluto dire è che la filosofia non è in antitesi col pensiero scientifico, o in contrapposizione ad esso. In realtà le due figure retoriche, quella dell'antitesi e quella dell'ossimoro sono abbastanza simili. Tuttavia la parola "antitesi" può anche non essere riferita alla figura retorica, ed essere intesa come sinonimo di "conflitto". Al contrario la parola "ossimoro" è esclusivamente riferita alla figura retorica. Ma se vogliamo valorizzare le eccellenze, qualche parola difficile ce la dobbimo mettere, mi pare.


Il punto è che la cultura non può essere vista come una competizione, ma come collaborazione per ampliare la comprensione di noi stessi e del mondo che ci circonda. In questo senso la cultura è quanto di più collettivo che come esseri umani ci è dato.

Maurizio Proietti iopropars

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