venerdì 26 agosto 2022

Alchimia Umana

"Alchimia Umana"
dipinto digitale di Maurizio Proietti iopropars

           

Qualche parola sul dipinto

Con quanto scritto di seguito, non intendo spiegare il dipinto, ma piuttosto illustrare le mie emozioni coinvolte nella sua creazione. 

Io penso all'alchimia, storicamente, come a un'aspirazione alla chimica di cui intuiva la possibilità. E più ancora che un'aspirazione la vedo come reificazione di una fantasia in cui alla possibilità che veniva intuita, si dava una forma di pratica effettiva. Così che per me è alchimia un mescolare elementi, senza produrre, se non occasionalmente, interazioni reali, ovvero reazioni chimiche.

Con "Alchimia Umana" intendo una condizione esistenziale che può venire prodotta da contesti organizzativi che non producono interazione umana reale, alienando gli individui che vi partecipano, di parte delle loro naturali modalità relazionali, e dunque delle loro emozioni. Si producono questi individui in certa misura assenti da sé stessi, che a volte compensano guardando la televisione e sognando la vita di altri. Alcuni sognano la vita dei personaggi famosi in cui si immedesimano. Forme di compensazione ci sono perché vengono elaborate ed offerte. 

A me sembra che la tonalità emotiva che fa da sfondo all'alchimia umana, sia quella del sentimento di colpa, soprattutto per chi è nei gradi inferiori della scala gerarchica dei contesti organizzativi che la producono. Questo sfondo del sentimento di colpa, si affaccia in gran parte della produzione letteraria di Franz Kafka, come ad esempio il racconto "Il colpo contro il portone". La mancanza di interazione reale non permette di chiarire i motivi di conflitto, generando attribuzioni di responsabilità che si trasformano in colpa, soprattuto per chi ha meno potere sugli altri.

Un esempio senz'altro banale, ma a mio avviso esplicativo del mio pensiero, per quanto potrei farne numerosi altri, lo ritrovo in un'interazione che ho avuto oggi pomeriggio, con una giovane donna al supermercato. Io, dopo avere pagato alla cassa, stavo molto rapidamente terminando di mettere le mie provviste dentro le buste, quando ho rallentato un pochino per mettere due buste chiuse di insalata lavata e in atmosfera protettiva, in modo che non si forassero durante il tragitto a piedi fino a casa, come mi era un'altra volta successo. Immediatamente allora, la signora che stava dietro a me, si è fatta avanti, senza esattamente spingermi, ma comunque facendo pressione con la sua spalla sul mio braccio, e facendo capire che era il suo turno di prendere possesso della posizione, e iniziare a mettere a posto la sua mercanzia, e che non poteva tenere più conto della mia presenza in quel posto nemmeno per un altro secondo, come effettivamente nel suo modo di fare non ne teneva più conto, se non quel tanto da non poter essere accusata di esercitare la forza. Si potrebbe definire una reazione maleducata, senza dubbio. Ma è maleducata appunto perché in quel modo di fare vi è un'attribuzione di colpa, l'attribuzione di una resposabilità da parte mia per un live rallentamento, che io non avevo, come lei certamente aveva potuto osservare, e su cui sarebbe potuta passare sopra. Diciamo che in quel modo ha cercato di farmi pesare la situazione. Si è mostrata infastidita, sia pure senza protestare apertamente. Se solamente non avesse voluto attendere, sarebbe semplicemente bastato dire un breve "Mi scusi", e iniziare a prendere le sue cose senza interferire con i miei movimenti. Le sarebbe bastato essere interattiva, ovvero tenere conto della mia presenza. Le sarebbe bastato comportarsi da essere umano, e portare avanti le sue esigenze, tenendo conto di quelle degli altri.

Nel mio dipinto vi è appunto una forma di organizzazione che tuttavia non esprime interazione.

Io oggi pomeriggio al supermercato mi sono guardato bene dal rivolgere un educato appunto a quella signora, del tipo "Signora mi scusi un istante, se mi consente ho quasi finito". Infatti ho idea, per esperienza, che abbastanza verosimilmente in questo modo avrei scatenato le ire del cassiere e delle altre persone in fila, non perché penso che tutti ce l'abbiano con me, ma perché attribuire colpa a qualcuno, a ragione o a torto, costituisce una condizione di vantaggio su quella persona. La mia netta impressione è di vivere in una società in cui moltissima gente, forse la maggior parte delle persone, non ha alcuna remora ad accusare ingiustamente qualcuno. In questa lotta di tutti contro tutti, anche le accuse ingiuste risultano utili, sebbene di solito non vengono formulate apertamente, ma piuttosto ventilate, fatte capire, in modo che più facilmente ci si possa ritrarre, e poi anche per non dare all'altro modo di difendersi ed eventualmente scagionarsi - è ovvio ci mancherebbe.

I contesti organizzativi di cui parlo, possono a volte determinare in coloro che occupano i gradi inferiori della scala gerarchica, la sensazione di non potersi sottrarre dall'essere trovati sempre colpevoli, perché non riescono a soddisfare le condizioni troppo gravose che vengono loro imposte. È quacosa di diverso dal problema "di avere un super-ego troppo potente", come può essere espresso in chiave freudiana, perché dipende dalle modalità organizzative a cui si è sottoposti. Intendo dire che non nego che la condizione descritta da Freud possa verificarsi, e cioè che l'istanza psichica preposta al controllo sul nostro comportamento morale, esageri nella sua funzione. Dico però che a determinare la sensazione di non poter sfuggire la colpa, in certe situazioni, vi possono essere innanzitutto dinamiche sociali, e solo di riflesso intrapsichiche.

Passando sul piano religioso, che occupa uno spazio profondo nel mio vissuto emotivo, dico che in questi casi mai dobbiamo pensare che il vissuto di non potersi sottrarre alla colpa venga da Dio. Perché anzi, quando il popolo di Israele era schiavo in Egitto, in una circostaza di questo genere Dio inviò Mosè a liberarlo. Infatti gli egiziani aggravarono la condizione di schiavitù degli israeliti, imponendo loro che dovessero procurarsi anche la paglia necessaria per fabbricare i mattoni che poi avrebbero utilizzato per le costruzioni, e che prima era loro fornita dagli stessi egiziani. Gli israeliti si trovarono allora in una condizione, non più solo di schiavitù, ma in cui non ce la potevano fare a soddisfare le richieste di coloro che li avevano ridotti in schiavitù.

Diciamo che al giorno d'oggi in Italia, un senso di insopprimibile inadeguatezza nei subalterni, si produce con meccanismi meno aparenti e non così gravosi, e ad esserne vittime sono le persone meno spregiudicate.

A Mosè fu data da Dio la Legge, che avrebbe dovuto garantire al suo popolo la coesistenza pacifica e la collaborazione. In realtà la Legge venne applicata, col passare del tempo, solo nei suoi aspetti esteriori, allo scopo di fare del rispetto della Legge un motivo per sé stessi di vanto.

Successivamente è venuto Gesù che ha sostituito la parola della Legge con il senso della Legge, che è, e anche prima avrebbe dovuto essere, nell'amore.

Gesù è morto per il perdono dei peccati, perdonando coloro che lo avevano crocifisso, e rivelando la disposizione di Dio riguardo alla colpa.

L'ipocrisia ha tuttavia, per come mi appare, di nuovo preso il sopravvento, trasformando anche il Cristianesimo, almeno in una larga parte, in una forma esteriore di culto. Le stesse "buone maniere" vengono sfoggiate come motivo di vanto da chi, essendo in condizione privileggiata, in un cerso senso "se le può permettere". Questo comunque è stato predetto, come sta scritto "Avranno le forme della pietà, ma prive di quanto ne costituisce l'essenza".

Per meglio chiarire le forme che prende l'alchimia umana, mi viene l'esempio di San Francesco D'Assisi in relazione all'organizzazione della Chiesa Cattolica. Per me è evidente che le crociate fossero una pratica anti-cristiana, ma nessuno mai avrebbe a quel tempo avuto il coraggio nemmeno di pensarlo. Se San Francesco lo avesse detto, anziché essere proclamato santo, sarebbe stato bruciato sul rogo. Ora tutta la gerarchia cattolica è retta dalla regola dell'obbedienza, che è qualcosa di diverso dall'amore fraterno con cui si possono risolvere le divergenze. Io sul Vangelo leggo "Non chiamate nessuno padre vostro sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello che è nei Cieli". Vai a dirlo a loro! I sacerdoti sono tutti "padri", e l'autorità suprema "Santo Padre".  Un sacerdote mi ha risposto "Ci sono pure i protestanti", con un tono di voce che intendeva "Che scuse vai cercando?". 

Non c'è interazione perché non c'è dialogo, perché sostanzialmente non c'è amore. Ecco allora che si genera "un'alchimia umana".

Maurizio Proietti iopropars


 

martedì 9 agosto 2022

Avere ancora caos in sé stessi

"Caos"
dipinto digitale di Maurizio Proietti iopropars


Avere in sé ancora caos

Io nel mio blog porto me stesso agli altri, ovvero mi faccio conoscere. Lo faccio con le mie riflessioni filosofiche, ma anche riportando espressioni dei miei vissuti emotivi. Allora mi chiedo anche cosa siano l'arte e l'opera d'arte, per stabilire se ciò che faccio rientri in questa categoria dell'arte.

L'opera d'arte, per come io l'ho intesa, è una forma di comunicazione. Anche se poi non credo che sia solo questo. Io penso che l'arte sia anche una forma di conoscenza che riguarda la nostra vita emotiva. Io penso che l'arte esprima e comunichi qualcosa di significativo che appartiene alla nostra esperienza emotiva, e che l'artista indaga in sé stesso riportandolo agli altri.

Se per me, come per altri, l'opera d'arte è una via d'accesso, possiamo dire, alla verità, vi sono state epoche e contesti storici in cui l'opera d'arte era intesa come riproduzione della realtà e anche rappresentazione della bellezza. Mi viene da pensare che anche in questi casi, già il fatto che vi sia un'opera, e cioè qualcosa di essenzialmente diverso da un "vieni a vedere questa cosa", lascia intendere che qualcosa di importante e significativo venga "trattato" in un certo modo. Viene riprodotto. Si diventa artefici di un qualche cosa che non può essere una copia identica di un determinato oggetto, ma che lo rappresenti "fedelmente". Si fa un lavoro di appropriazione di un elemento dell'ambiente, che diventa un artefatto ed entra all'interno della cultura. Entra nell'universo comunicativo di una popolazione. In tal modo, se in queste forme artistiche, la relazione con il mondo ha una maggiore importanza rispetto a forme artistiche in cui l'artista è maggiormente centrato sulla propria esperienza emotiva, io penso che la genesi e la funzione dell'opera d'arte sia la stessa.

Detto questo, ci tengo a precisare che io rifiuto il paradigma materia-forma riguardo all'opera d'arte. Io non penso che l'espressione artistica - sia essa poetica, musicale, o pittorica ecc. - sia una materia, o contenuto, a cui bisogna dare una certa forma. Io ritengo che nel creare un'opera d'arte, nell'indagine che l'artista compie in sé stesso per poterla creare, egli si ponga sempre in relazione con gli altri. In tal modo non c'è separazione tra i due momenti, quello conoscitivo e quello comunicativo-espressivo. A partire da una sensazione indistinta alla quale l'artista rivolge la sua attenzione, l'artista dà corpo a un'espressione che comunica agli altri questa sensazione, ma contemporaneamente permette allo stesso artista di intenderla. Per usare una metafora potremmo dire che l'opera d'arte senza la sua espressione è Caos. Caos e vissuto privato. Appartiene in qualche modo all'inconscio.

Io penso che l'artista modelli il linguaggio con cui si esprime, sulla società a cui appartiene, e pertanto di questa società egli sia espressione. Pertanto, io penso che per quanto ardito e innovativo possa essere il linguaggio con cui l'artista si esprime, il suo linguaggio non sia mai fuori della portata dei suoi contemporanei.

Sento che quello che ho esposto, è il motivo per cui a me piace riguardare i miei dipinti e rileggere le mie poesie, non perché io in tal modo ammiro me stesso, ma perché mi portano più in contatto con me stesso, oltre che farmi conoscere agli altri. E poiché quello che cerco in me stesso mi serve per crescere e maturare ed essere una persona migliore, penso che sia qualcosa in grado di essere utile anche agli altri.

Così, se ho riflettuto sulla creazione dell'opera d'arte, per passare a riflettere sulla sua fruizione, dico che capire un'opera d'arte significa capire un messaggio, ma per capire questo messaggio bisogna mettersi in condizione di riceverlo. L'opera d'arte però non è un messaggio cifrato da decodificare, come alcuni sembrano pensare. L'opera d'arte è una comunicazione emotiva che bisogna mettersi in condizione di ricevere, così che capire un'opera d'arte significa accettare e capire l'emozione che quest'opera ci porta a provare. Dunque bisogna saper ascoltare e capire noi stessi, dopo aver accettato di provare un'emozione che un'altra persona ci ha voluto trasmettere. 

Io non saprei dire fino a che punto, nella mia concezione dell'opera d'arte, non sia stato influenzato dalla lettura e rilettura, nella mia giovinezza, di "Così parlò Zarathustra", di Friedrich Nietzsche. A me sembra che nella "Prefazione di Zarathustra" - che è una narrazione che precede i discorsi di Zarathustra che si susseguono nel corso dell'opera - in forma di metafore si suggerisca qualcosa di analogo alle considerazioni che io ho appena esposto sull'opera d'arte.

Ho parlato di caos per indicare ciò che sarebbe l'opera d'arte, se la si volesse considerare priva del suo aspetto comunicativo. In "Così parlò Zarathustra", mi sembra che il concetto venga esposto con la metafora del sole a cui Zarathustra domanda cosa sarebbe della sua felicità, se non avesse a chi splendere. Zarathustra accumula la sua saggezza nella sua solitudine, ma nell'elargirla adegua la sua predicazione a coloro che incontra. Zarathustra proclama anche esplicitamente l'importanza di avere in sé ancora un caos. Io credo che intenda dire che dove si è generato ordine non vi può essere sviluppo, perché non vi è necessità di sviluppo. Ritengo che in "Così parlò Zarathustra", Nietzsche affermi che il tipo di ordine che la civiltà europea stava costruendo, fosse regressivo e privasse di senso l'umana esistenza. Si potrebbe riassumere il senso di quest'ordine, nella contentezza di sé medesimi. Dice Zarathustra:

Ma voi, fratelli miei, ditemi: che cosa vi rivela il vostro corpo sul conto dell’anima vostra? Ma non è dessa forse miseria e sozzura e miserabile contentezza di sé medesima?

Questo suo immaginario profeta per cui ha scelto il nome di Zarathustra, elenca coloro che egli ama, e tra le categorie che egli elenca, ve n'è una da cui a mio avviso si capisce meglio ciò che egli ama in coloro che ama, e dunque spiega il perché del suo amore:

Amo colui che della sua virtù forma la propria inclinazione e il proprio destino: così per amore della propria virtù egli vuole vivere più a lungo o non vivere più. 

Amare la propria virtù più di sé stessi, libera dal meschino attaccamento a sé stessi che frena ogni possibilità di sviluppo. L'ordine contro cui egli mette in guardia, è un ordine che porti di restare fissati a sé stessi e alla propria condizione, per quanto sia essa imperfetta, ma anche miserabile. È un ordine ottenuto al prezzo di perdere di sé stessi qualcosa. Per questo Zarathustra anche dice:

È giunto il tempo che l’uomo si proponga una meta. È giunto il tempo che l’uomo getti il seme della sua più alta speranza. 

E poi ancora:

Io vi dico: bisogna aver ancora un caos in sé per poter generare una stella danzante. Io vi dico: voi avete ancora del caos in voi.

Questo caos di cui parla, sembrerebbe indicare potenzialità inespresse, a cui si accompagna un senso di insoddisfazione. Infatti subito prima dice:

Guai! Si appressa il tempo in cui l’uomo non lancerà più la freccia della sua brama oltre l’uomo, e la corda del suo arco avrà disappreso a sibilare!

  Io dunque in "Così parlò Zarathustra" vi leggo un avviso che la civiltà procede in una direzione che priva di senso l'umana esistenza, perché il senso si troverebbe nello sviluppo del genere umano. La tendenza al superamento di sé stessi, sembra per lui essere intrinseca alla natura umana, così che rinunciare a porsi l'obbiettivo di uno sviluppo, sarebbe in realtà un tradimento di sé stessi. Lo sviluppo di cui parla Zarathustra, tuttavia, come si può leggere chiaramente, non riguarda i singoli individui ma il genere umano. Zarathustra chiede abnegazione agli individui, allo scopo di mettersi al servizio dello sviluppo del genere umano. Questo lo dice esplicitamente.

Con il concetto di superuomo non descrive affatto individui che essendo superiori agli altri, siano liberi di dominarli. Il concetto di superuomo è piuttosto una metafora rivolta ad affermare che gli uomini del tempo presente, devono produrre lo sviluppo per coloro che verranno dopo di loro. Il superuomo è il risultato del loro operare, rivolto a superare la condizione presente. Non invita i suoi contemporanei a diventare superuomini, ma a generare superuomini attraverso la propria opera. È ciò che egli chiama "la nobiltà del divenire", che contrappone alla nobiltà delle origini. Dichiara Zarathustra:

Il superuomo è il senso della terra

E poi più in là:

Io amo coloro che non sanno vivere altrimenti che per sparire giacché sono quelli che vanno oltre.

E ancora:

Amo colui che vive per conoscere e che vuole conoscere, affinché un dì viva il superuomo. Poi che in tal modo soltanto ei vuole la propria distruzione.

Si intende anche, che chi si pone questa meta che Zarathustra predica, eleva sé stesso, ma si eleva attraverso la propria abnegazione.

Compreso questo punto, è anche possibile, se questo si ritiene di dover fare, criticare il pensiero di Nietzsche, e determinarne più corretti sviluppi. La nostra cultura si è venuta invece spesso a dividere tra coloro che lo citano esaltati e coloro che lo denigrano, ma né gli uni e gli altri, per come io la vedo, tentano di comprenderlo con la necessaria attenzione.

Le metafore di Nietzsche sono di solito dotate di una grande risonanza emotiva, e per questo vengono spesso usate, anche attualmente in rete, per farsene fregio, tralasciando di affrontare quella radicale trasformazione di sé, a cui questo autore vorrebbe portare, per ridare il senso che vede e presenta come perduto, alla nostra esistenza.

È come se vi fosse gente impegnata nella costruzione di un'opera, e vi fosse qualcuno che grida loro che si devono fermare, perché stanno sbagliando e bisogna fare delle modifiche, e gli altri invece di fermarsi, ripetono quello che quell'uomo dice, imitando il suono della sua voce, perché a loro piace il suono della sua voce, perché a loro piace la passione che lui mette nella sua voce, la sentono come qualcosa di bello e vogliono attribuirsela e farsene fregio. Ma ciò che sentono e pensano bello è l'amore che quell'uomo porta per loro. Ma quest'amore cade nel vuoto, perché l'insegnamento che scaturisce da quest'amore viene ignorato, perché a loro interessa attribuirselo e niente più. È questo il modo in cui si chiudono all'ascolto.

Nietzsche alla sua opera "Così parlò Zarathustra" ha dato il sottotitolo "Un libro per tutti e per nessuno". Penso che egli abbia voluto esprimere in questo modo la sua percezione di sentirsi circondato da una chiusura alla comprensione della sua opera. Dire che non vi sia una categoria di individui, in particolare, per cui il libro è stato scritto, mi sembra che indichi la sua determinazione a non andare incontro ai lettori. Sta ai lettori operare al fine di trarre vantaggio dall'opera. Nessuno viene escluso, ma anche a nessuno si va incontro, "rendendogliela più facile". E Zarathustra lo dichiara "Io sono l'argine sull'orlo del precipizio. Si aggrappi chi può, ma non sono le vostre stampelle".

Una metafora di Nietzsche che è parecchio abusata, riguarda proprio il passo del caos che anche io ho citato, ma è stata modificata per farne una sorta di slogan. Il modo in cui viene citata è: "Solo dal caos può nascere una stella danzante". In questo modo sembra una frase atta a distinguere le persone che hanno il caos da quelle che non ce l'hanno, conferendo alle prime, una potenzialità che le seconde non hanno. Avere questa potenzialità, significa avere un valore che sta a loro saper fare fruttare. Questo non è quanto intendeva dire Nietzsche in quel passo. La presenza di un caos in sé stessi era una condizione culturale che riguardava tutti. Lui, così io l'ho inteso, parlava dello sviluppo da dare alla cultura del suo tempo.

Questo travisamento che ho appena esposto del pensiero di Nietzsche, a volte avviene in rete, anche in modi che mi danno un po' fastidio. Ad esempio, una persona che conosco, e che va spesso soggetta a delle crisi di nervi, ha pubblicato anche lui il suo bravo post con la frase "Solo dal caos può nascere una stella danzante", e a me è sembrata una sorta di rivendicazione personale. È come se avesse messo la metafora al servizio dell'inclusione sociale, ma in modo parecchio distorto. Come dire che solo chi ha qualche problema può produrre qualcosa di eccellente. Così, secondo questa logica, chi ne ha, dovrebbe acquistare valore agli occhi degli altri, a causa delle sue potenzialità. A me la cosa dà fastidio perché è sempre una forma di autoesaltazione e dunque anche di discriminazione. Io credo che l'accettazione sociale debba riguardare tutti, indipendentemente dal fatto che possano o meno generare stelle danzanti, e che non vi siano gerarchie di valore tra gli esseri umani. Per come la vedo io, è come se questa persona avesse rivendicato di non essere tra i discriminabili, ma tra gli ammirabili.

Il punto non è che io voglio impedire di perseguire l'ammirazione sociale a chi ha qualche problema, ma che penso che cercare l'ammirazione degli altri sia una cosa sbagliata per tutti. Io penso che ciò che causa la discriminazione di alcune categorie, sia proprio il fatto che le relazioni sociali sono basate sulla ricerca dell'ammirazione.

Nel parlare di Nietzsche, ma anche nel parlare della capacità di fruire dell'opera d'arte, è importante riflettere sul fenomeno della ricerca dell'ammirazione degli altri. Potremmo dire la ricerca del proprio prestigio personale. 

È proprio il fatto che Nietzsche parli di mete elevate, a risvegliare la vanagloria di molti suoi lettori. E però chi ricerca l'ammirazione degli altri viene ad essere ancorato al giudizio degli altri. Una cosa che dice Zarathustra nel capitolo della prima parte intitolato "Delle mosche e il mercato" è: 

Poco comprende il popolo la grandezza, cioè la creazione, ma ha occhi ed orecchi per i commedianti, per quelli che rappresentano le cose grandi.

Il mondo gira intorno agli inventori di nuovi valori: — gira invisibilmente. Ma intorno ai commedianti volgono il popolo e la gloria: tale è la vita.

 Il commediante possiede lo spirito, non la coscienza dello spirito. Egli sempre crede in ciò a cui suol persuadere gli altri: — crede cioè in sé stesso !

A me sembra che "Così parlò Zarathustra" sia un'opera che invita a rivolgere i propri sforzi verso l'elevazione del genere umano, procedendo nella direzione opposta della ricerca del proprio prestigio personale o accettazione sociale, o anche esaltazione di sé. Qualcuno potrebbe dire che questo testo è tale che ognuno riesce a leggervi ciò che più desidera. Io però do ai lettori del mio blog il link di Wikisource, così, se vogliono potranno dirmi come si fa a negare che almeno nella "Prefazione di Zarathustra" non si parli di abnegazione a favore dello sviluppo del genere umano.

it.wikisource.org/wiki/Così_parlò_Zarathustra/Parte_prima/Prefazione

Su come la vanagloria si opponga alla comprensione del senso dell'opera d'arte, come di quello della vita, ho espresso la mia opinione in un mio precedente post sul presente blog "Generale dietro alla collina"

iopropars.blogspot.com/2022/07/generale-dietro-alla-collina.html

Inventori di valori nuovi, per me, potrebbero essere stati coloro che in Italia, tra difficoltà ed errori, hanno voluto la chiusura dei manicomi (per fare un esempio). Senza di loro io, quasi certamente, adesso sarei rinchiuso in un manicomio, anziché condividere le mie idee in rete.

Maurizio Proietti iopropars

sabato 30 luglio 2022

Pertanto la mia poesia


Pertanto la mia poesia


A che serve
Ascoltare e osservare e provare emozioni?
A che serve sentire e descrivere
Anche bene ciò che si prova
E renderlo in versi?
A che serve 
Se questo non porta
A migliorare se stessi?
Sempre cercare, ma anzi protendersi
A migliorare sé stessi:
Questo dà senso alla vita,
Perché questo si chiama saggezza,
Perché questo significa amare
Con tutte le forze il nostro Creatore.
Pertanto la mia poesia
Anche quando è profana
Vuole cantare
Inni di lode al nostro Creatore,
A colui che giurò nel suo sdegno
"Non entreranno nel mio riposo".
Il suo riposo voglio conoscere,
Realizzando in me la sua opera,
Rendendo in questo modo
A Lui la gloria.

Maurizio Proietti iopropars
 

mercoledì 27 luglio 2022

Generale dietro la collina

Vista da un treno.
Foto di iopropars


Viaggiando in treno, mentre guardavo il paesaggio, mi è venuta in mente la canzone Generale, di Francesco De Gregori, e mi sono affrettato a scattare la foto che introduce il presente post. Riporto, a seguire, di quella canzone i versi che maggiormente associo al momento in cui ho scattato la foto.

Generale queste cinque stelle

'Ste cinque lacrime sulla mia pelle

Che senso hanno dentro al rumore di questo treno?

Un'emozione mi ha attraversato in quel momento, penso legata a una guerra in cui inaspettatamente e in modo mascherato siamo entrati.

Di questi versi dico che è come chiedersi se i morti in guerra siano realmente necessari alla pace, o se sono ferite laceranti che sta alla pace rimarginare. I due possibili sensi sono questi. Il treno di cui parlano i versi è il treno che riporta i soldati verso casa alla fine della guerra. Le cinque stelle simboleggiano le medaglie al valor militare per i cinque figli di una contadina, "partiti e non ancora tornati".

Mi fermo a spiegare il senso della metafora, perché talvolta si tende più ad accarezzare il fascino di come una metafora riesce a parlarci, che a soffermarci sul senso di ciò che ci dice. Si viene in tal modo a perdere l'occasione per cui la poesia possa operare in noi un cambiamento significativo, così che solo superficialmente viene a toccarci, senza trasformare il nostro modo di reagire alle circostanze con cui la vita ci pone a confronto.

Non desidero che di me si pensi, tuttavia, che se io spiego una poesia, lo faccio partendo da un ragionamento sul testo. Il percorso che faccio, invece, è di esporre il significato che la poesia mi comunica. È dopo, che cerco in descrivere in che modo il testo mi comunica quel significato, allo scopo di dimostrare che il significato che io espongo, è proprio quello che la poesia comunica.

Ciò che io sostengo è che per capire l'opera d'arte bisogna aprirsi all'ascolto dell'opera d'arte, altrimenti l'opera d'arte diventa una specie di gioco enigmistico da risolvere. Bisogna lasciare che l'opera d'arte susciti in noi i sentimenti che è in grado di suscitare, in quanto opera d'arte. Capire l'opera d'arte è innanzitutto una questione di empatia.

La metafora ci parla perché riesce a muovere le nostre emozioni. Io, ad esempio, prima ho usato l'espressione "accarezzare il fascino di come una metafora riesce a parlarci", per indicare un modo in cui si entra in rapporto con la nostra reazione emotiva di restare affascinati. Io ho usato la metafora di una modalità di relazione interpersonale, quella di accarezzare, per descrivere una reazione narcisistica che può occorrere nella fruizione dell'opera d'arte. Quando dico che si "accarezza il fascino", evoco, anziché soltanto dichiararla, la relazione affettiva che si instaura con una reazione emotiva, e cioè con una parte di sé. Si distoglie l'attenzione dal messaggio, dall'emozione che ci ha suscitato, per ammirare il modo in cui il messaggio è stato comunicato. E questa ammirazione è pure un'emozione, ma un'emozione diversa da quella che il messaggio ci aveva comunicato. E a volte le due emozioni si mescolano.

Se noi però ci perdiamo nell'ammirazione per il messaggio, perdendone di vista il contenuto, è perché vorremmo far nostra quella forza nel comunicare, non perché risponde alle nostre esigenze espressive, ma perché vorremmo che fosse tributata a noi l'ammirazione che ci ha suscitato. L'efficacia comunicativa di una metafora, ci può portare a guardare quella metafora come un oggetto che se assunto, è atto a soddisfare il nostro narcisismo. Se si dà corso a questa reazione, ci si distoglie da un processo di crescita personale, che l'opera d'arte è invece in grado di promuovere.

Parlando di guerra e parlando dell'interpretazione dell'opera d'arte, ho parlato in entrambi i casi della vanagloria, che è ciò che toglie il senso, sia alla comunicazione, che alla nostra stessa vita.

Maurizio Proietti iopropars


Riporto di seguito l'intero testo della canzone, come è possibile trovarlo in rete:

Generale
Brano di Francesco De Gregori

Generale, dietro la collina
ci sta la notte crucca e assassina,
e in mezzo al prato c'è una contadina,
curva sul tramonto sembra una bambina,
di cinquant'anni e di cinque figli,
venuti al mondo come conigli,
partiti al mondo come soldati
e non ancora tornati.

Generale, dietro la stazione
lo vedi il treno che portava al sole,
non fa più fermate neanche per pisciare,
si va dritti a casa senza più pensare,
che la guerra è bella anche se fa male,
che torneremo ancora a cantare
e a farci fare l'amore, l'amore delle infermiere.

Generale, la guerra è finita,
il nemico è scappato, è vinto, è battuto,
dietro la collina non c'è più nessuno,
solo aghi di pino e silenzio e funghi
buoni da mangiare, buoni da seccare,
da farci il sugo quando è Natale,
quando i bambini piangono
e a dormire non ci vogliono andare.

Generale, queste cinque stelle,
queste cinque lacrime sulla mia pelle
che senso hanno dentro al rumore di questo treno,
che è mezzo vuoto e mezzo pieno
e va veloce verso il ritorno,
tra due minuti è quasi giorno,
è quasi casa, è quasi amore.

                                            

lunedì 11 luglio 2022

Storie di alienazione quotidiana



È vero che sono un perdente. Ma certo! Su questo punto, a coloro che lo pensano, do senza alcun dubbio ragione. Ma sebbene sia vero che loro sono efficienti e noialtri no - io e quelli come me - noi prevarremo perché siamo intelligenti. E a chi si chiede in cosa possa consistere un'intelligenza che non determina l'efficienza, io rispondo sicuro che è intelligenza pensare che verità, e giustizia, e misericordia, siano più importanti dell'efficienza. 
Con la verità riusciremo a smontare il loro mondo costruito sulla menzogna. Smantelleremo questa loro realtà sociale, organizzata in modo da escludere l'intelligenza, che sostituiscono con lo sterile calcolo. Solo il calcolo serve ai mercanti che fanno di tutto mercato, e così si pretende che l'intelligenza sia calcolo. Adoratori che sono del dio denaro, che in passato si chiamava Mammona, un demone che esiste per chi se lo crea, perché è un modo di essere della mente.
È quanto mi viene da pensare ripensando a un'interazione che mi è capitato di avere con un cassiere di un grande magazzino di abbigliamento. 
 Stavo appunto in fila per pagare, dopo aver effettuato acquisti nel grande magazzino, e quando è stato il mio turno e mi sono avvicinato alla cassa, il cassiere mi ha salutato cordialmente. Ha  poi detto qualcosa, e l'ha detto facendo capire molto bene che fosse omosessuale, modulando inequivocabilmente in un certo modo la voce. Mi sembra che mi abbia chiesto se avessi la carta del grande magazzino, ma sembrava palese che cercasse di farmi capire che avrebbe gradito una relazione. Io sono esclusivamente eterosessuale e la cosa non ha suscitato in me alcuna reazione. Ciò che invece mi ha dato fastidio è stata la sua di reazione, quando mi ha corretto perché stavo inserendo la mia carta di credito nel POS, con il cip verso il basso anziché verso l'alto. Il tono della sua voce è diventato di dura e spietata condanna. Era un tono di voce che potrebbe essere descritto con un'espressione del tipo "essere così inetti è del tutto esecrabile", come se si fosse trovato al cospetto di un peccato mortale. Prima ancora che potesse sapere che il suo approccio sarebbe stato da me semplicemente lasciato cadere, se lo è rimangiato a fronte della mia inefficienza. A turbarmi è stata la gravità di un giudizio morale da lui espresso, per una circostanza che io ritengo assolutamente innocente.
Ciò che mi è arrivato è che quel personaggio mi abbia individuato in un primo momento come un elemento da far entrare nella dimensione della sua identità sociale, perché atto ad arricchire il suo prestigio interpersonale o il suo ideale narcisistico, e mi abbia successivamente scartato perché ha trovato in me un grave difetto, tale non solo da annullare il mio valore, ma addirittura da portare disonore. Questo è ciò che deve rappresentare, evidentemente, il mio errore, per la società di alienati a cui fa riferimento.
In questa circostanza ravviso ciò che forse in termini psicoanalitici potrebbe essere chiamato "pulsione di appropriazione". Mi viene da usare questo termine perché mi pare che la pulsione sessuale sia in questi casi messa al servizio di una pulsione diversa, atta soddisfare il bisogno di arricchire sé stessi con l'altra persona. È il fatto che quella persona abbia reagito con forza eccessiva nei miei confronti, come se io avessi commesso un'azione moralmente deplorevole, a indurmi questo pensiero.
A suscitarmi maggiore sgomento tuttavia, non è tanto l'uso che mi è apparso lui faccia della sessualità - che è piuttosto comune nella società in cui viviamo - quanto le implicazioni sul piano relazionale, di quel tipo di giudizio morale. 
Un pesante giudizio morale può essere espresso nei confronti di qualcuno che commette un atto che sia nocivo nei confronti una persona o nei confronti della collettività, e pertanto gli si fa rilevare che il suo comportamento è antisociale. Ora in nessun modo l'errore da me commesso poteva avere implicazioni morali, perché anzi era proprio nelle sue mansioni di cassiere avvisare il cliente di quell'errore. In tal modo, ad essere pervertito non era soltanto l'uso della sessualità - che rientra comunque nella sfera personale, anche se poi ha implicazioni nei confronti dei partner con cui si interagisce - ma il concetto stesso di inclusione sociale. Io sostengo che la persona che reagisce a un errore come il mio, anche peggio di come si potrebbe reagire verso chi rivolge a qualcuno un'offesa razziale, falsa il proprio giudizio morale.
Qualcuno potrebbe obbiettarmi che non esiste una morale oggettiva, e che differenti giudizi morali riguardo alle medesime circostanze, nascono da differenti culture di appartenenza. Io invece sono convinto, che sebbene questo può anche essere vero, poiché la morale è ciò che regola la vita sociale, è possibile un confronto sulla morale, che tenda a stabilire in che modo garantire all'altro pari diritti e pari dignità che a noi stessi. È in questo senso che esiste una morale oggettiva.
Io però vado ancora oltre. Infatti non ho detto che quel cassiere ha dato un falso giudizio morale, ma che ha falsato il proprio giudizio morale. Questo significa che secondo me, lui si è allontanato dal vero giudizio morale che era in grado di avvertire, per formularne un altro di tipo diverso. O se vogliamo potrei esprimere il concetto che anziché formulare il giudizio morale sensato, che sarebbe stato di capire che, in virtù della sua funzione, sarebbe stato suo dovere assistermi nell'operazione che dovevo compiere, ne ha formulato uno insensato, ritenendomi colpevole per un errore banale. 
Il giudizio morale di quel cassiere è stato falsato da una dimensione culturale in cui si  costruiscono le relazioni sociali, che è falsa perché non vi è il riconoscimento della dignità delle altre persone, che vengono asservite ai propri bisogni materiali, ma anche psicologici e intrapsichici. È all'interno di quella dimensione psicosociale che ha preso corpo il suo giudizio morale, atto ad escludermi dal suo sistema di relazioni, dopo aver cercato di includermi, perché non mi ha ritenuto funzionale ai suoi scopi, e non perché avessi commesso un'azione cattiva.
Io sono convinto della correttezza del concetto di morale come imperativo categorico formulato da Kant. Il termine "imperativo categorico" ha assunto nel linguaggio comune, il significato di un dovere a cui non è possibile sottrarsi. Ma Kant definisce invece con il termine "categorico", quell'imperativo che può essere disatteso, mentre invece definisce "ipotetico", quell'imperativo a cui non è possibile sottrarsi. Io sono convinto, al pari di Kant, che l'istanza morale sia da ogni essere umano avvertita come tale, e che tuttavia si possa tralasciare di seguirla. Io penso che però, tralasciando di dare ascolto all'imperativo morale, l'essere umano perda sé stesso, vada verso una condizione di alienazione.
Ora, quando Marx parla di alienazione nella società capitalistica, intende l'alienazione dal pieno godimento del ricavato della vendita di ciò che il lavoratore salariato produce, in quanto egli svolge il proprio lavoro, usando strumenti per la produzione che appartengono ad altri, che dal suo lavoro ricavano pertanto un profitto. I sostengo che l'ideologia neo-liberista, che ha assunto il ruolo di dottrina sociale, produce l'alienazione degli esseri umani dalla loro stessa identità più autentica, con meccanismi che vanno oltre lo sfruttamento del lavoro. È la stessa ideologia neo-liberista, che si è costretti ad assumere per poter svolgere delle funzioni nella società in cui viviamo, che produce alienazione da sé.
La grande menzogna del neo-liberismo è che la competizione sarebbe alla base della società civile, in quanto produrrebbe la spinta motivazionale alla produzione, e dunque ad emanciparsi dalla miseria materiale in cui senza una produzione efficiente si verrebbe a cadere. In realtà la civiltà, intesa come quell'insieme di circostanze che permettono la vita sociale, è per sua natura collaborazione. La vita sociale ha senso appunto perché attraverso la collaborazione possiamo ampliare le nostre possibilità umane, non solo in senso produttivo, ma anche psicologico, inteso come incremento della comprensione di noi stessi e del mondo.
È la mancanza di compassione verso l'altro in questa società di alienati, ciò che mi sembra orribile, appunto perché la compassione è un elemento naturale e fondante della condizione umana.  Si viene invece spinti a operare secondo un complesso di valori che va a sostituire i naturali valori umani, che sono tali indipendentemente dalla cultura di appartenenza. Così è disumano mangiare in abbondanza quando qualcuno vicino a noi sta morendo di fame, quale che sia la cultura a cui appartiene colui che lo fa. Per arrivare a poterlo fare bisogna alienarsi da sé. 
Io sono profondamente convinto che la compassione sia una condizione naturale e fondante in noi esseri umani, e penso che chi ne è privo lo sia perché forza sé stesso per allontanare da sé alcune sue naturali reazioni che lo renderebbero, nella sua propria valutazione, più fragile, meno potente, nella fattispecie meno efficiente nell'affrontare quella competizione sociale, sulla quale, secondo l'ideologia neo-liberista, sarebbe fondata la civiltà. 
Che le preoccupazioni del mondo fossero in conflitto con la vita spirituale, era già vero ai tempi della predicazione di Gesù, ma forse non ai livelli attuali. Attualmente l'ideologia neo-liberista ha reso ufficiale il culto di Mammona, lo ha reso religione di Stato in ogni parte del mondo. Secondo questa ideologia, per vincere la povertà, bisogna aumentare a dismisura la produzione, anche a costo di distruggere le risorse ambientali, ma al tempo stesso aumentare il divario di ricchezza tra ricchi e poveri. È un meccanismo che va analizzato, ma già a priori è a mio avviso evidente che è una menzogna ideata da gente animata da un'avidità senza fondo.
Maurizio Proietti iopropars

lunedì 4 luglio 2022

Un amore mai spento


 

                 Un amore mai spento


Non penso proprio che sia perché 

Allora noi 

Eravamo giovani.

È quell'entusiasmo che c'era,

La grande speranza 

Che si condivideva

Di poter costruire un mondo migliore,

È questo che è venuto a mancare.

Perché questo eravamo,

Eravamo la parte

Di una generazione

Che della storia sentiva

Di essere protagonista,

Tanto era forte 

La spinta ideale da noi condivisa.

Riascoltando dunque questa canzone

Che a volte cantavano alcuni di noi

E agli altri piaceva ascoltare,

Mi viene da chiedermi 

Chi si ricorda di questa canzone,

Chi la conosce,

Che fine hanno fatto coloro

Che la cantavano,

I protagonisti di un'avanguardia 

Ripiena di sentimenti che è stata dispersa.

Perché è chiaro che la società

In cui ora viviamo

Non è quella per cui lottavamo,

Non è il mondo "più giusto e più saggio"

In cui si sperava,

E che a noi tutti

Sembrava che non sarebbe

Stato possibile per noi non realizzare.

La nostra sconfitta è un richiamo

All'intelligenza e non alle armi.

Gridare la nostra rabbia non basterebbe

Come non è bastato.

Per operare

Il cambiamento sulla realtà

Bisogna comprenderla.


Maurizio Proietti iopropars

Di seguito un'altra commovente versione della stessa canzone. Commovente per quel modo di essere, in cui era cantata. A me sembra la voce di una donna che sente la forza di questa dichiarazione d'amore.


Favorevole a legalizzare l'ora

Vignetta di Maurizio Proietti iopropars Favorevole a legalizzare l'ora Pensavo ai miei amici di quando ero giovane, quando mi è venut...