lunedì 29 gennaio 2024

La cultura del confronto non è meritocratica

"Basta coi muri"
dipinto digitale di 
Maurizio Proietti iopropars




La cultura del confronto
(contro la frode meritocratica) 


La mia penosa impressione, ricavata seguendo pubblici dibattiti sui media, ma anche parlando con amici e conoscenti, è che siano troppo poche le persone in Italia, disposte all'ascolto e al confronto, e dunque all'incontro con l'altro. Forse non è un problema che affligge solo il nostro paese, anche se mi sembra che nel nostro, sia più accentuato che in alcuni altri. Come che sia, si tratta comunque di rifondare e difendere la cultura del confronto, se si vuole salvare la civiltà. In questa direzione esorto ad andare, laddove attualmente, io ravviso nel linguaggio come nella vita della gente, delle persone, di noi esseri umani, una perdita di senso.

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Io questo sostegno, che non vi può essere senso per l'essere umano nell'esercitare dominio, ma solo nel comprendere. Il senso risiede nella realizzazione di sé stessi. Ci faceva appunto sorridere, l'espressione divenuta popolare: "Wilma la clava!" (tratta dal celebre cartone animato "I Flintstones" ).

Per impostare il problema in termini cibernetici, anche se semplici, diciamo che possiamo operare su un sistema, solo se lo conosciamo abbastanza da prevedere le sue reazioni ad una nostra determinata azione. Quello che voglio illustrare è che l'intelletto non domina l'oggetto della sua comprensione, ma entra in relazione conoscitiva con esso, anche se poi deve anche essere possibile un'azione su questo oggetto per poterlo utilizzare per i propri scopi. Però prima di agire, nel conoscerlo, il nostro intelletto assume in sé stesso l'oggetto a cui si rivolge. Io penso che sia questa, la circostanza che ci porta a dire che lo comprende, o analogamente che lo capisce, e cioè lo contiene.

Dobbiamo soffermarci a pensare che l'interesse scientifico ha un senso indipendentemente dai suoi risvolti applicativi. Il pensiero scientifico si è sviluppato prima che se ne intravedessero le possibilità applicative. Il pensiero scientifico è squisitamente umano, utile alla realizzazione di noi stessi al di là dei suoi risvolti applicativi.

Ora però, a quanto detto riguardo alla relazione conoscitiva con gli oggetti inanimati del mondo che ci circonda (con piante ed animali è anche più scontato parlare di “relazione”), aggiungo che con gli esseri umani il discorso si amplifica, perché essi a loro volta sono in grado di entrare in relazione con noi, nel modo stesso in cui noi entriamo in relazione con loro. È da questa reciprocità nella relazione conoscitiva che nasce il confronto. E io sostengo che sia proprio dalla possibilità del confronto che si sviluppa il linguaggio. Vedo dunque la genesi del linguaggio nella condivisione della comprensione, che in tal modo non è più funzionale soltanto alle necessità operative di colui che la sviluppa, ma viene offerta all'altro. In tal modo il linguaggio può essere anche intrapsichico, quando del confronto è ammessa la possibilità. 

Mi sembra che non si possa dubitare che il linguaggio sia interazione, dunque azione reciproca, in una certa misura fusione nella comunione di intenti, ovvero collaborazione. In tal modo la collaborazione deve essere caratteristica peculiare della specie umana, più della struttura gerarchia del branco. Allo scopo di evidenziare che questa nuova forma di darwinismo sociale che nella mia opinione è la meritocrazia, non ha una base scientifica, si potrebbe anche aggiungere che forme di collaborazione vi sono anche nel resto del regno animale. Anche lì non vi è solo lotta per il predominio. Come afferma Linneo "Natura non facit saltus”. Ma è la straordinaria complessità e ricchezza che assume il linguaggio nella specie umana, che ce la deve far pensare come una specie straordinariamente collaborativa.


Io dunque sostengo, che l'intelligenza dell'essere umano, non è una caratteristica di individui in competizione con altri individui per stabilire chi di loro debba comandare sull'altro. Sostegno invece che nasce e si sviluppa in una modalità sociale di cooperazione. Pertanto ciò che sostengo, è che l'amore fonda l'intelletto. E in questo mi riconosco pienamente cristiano.

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Tornando alla perdita di senso, il linguaggio perde senso quando non si riesce a comunicare, come succede quando invece di trovare arricchimento nel confronto con opinioni diverse dalle nostre, si entra in competizione per dimostrare che siamo più bravi del nostro interlocutore.

Eppure più ancora, è la nostra vita a perdere senso quando è priva di amore.

Questo lo dico, per dare idea di quanto sia falsa per me l'affermazione che con la  competizione si valorizzano le eccellenze.

La mia esperienza è che sempre i mediocri si coalizzano per affossare le persone più intelligenti, che per la natura stessa dell'intelligenza sono meno competitive. Queste vengono ad essere anche demotivate in questa organizzazione sociale che fa della competizione la sua virtù forsennata, appunto perché essendo intelligenti hanno interessi più sensati che non sia  quello di far vedere che sono più bravi di altri. A me sembra che nella nostra società, che pretende di proporsi come inclusiva ma è dominata da questa cultura del degrado morale e civile, a venire esclusi ed emarginati siano proprio le persone più intelligenti.

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Che si voglia premiare l'impegno è un conto, ma che a quello che era il Ministero della Pubblica Istruzione, si sia dato il nome di Ministero dell'istruzione e del Merito, mi sembra che riveli una tendenza a dare un'impronta ideologica all'istruzione.

La mia esperienza è che molte volte il merito corrisponde all'andare in simpatia a coloro che sono preposti alla valutazione. È un problema questo che io non penso che possa essere risolto con i test di valutazione, che a me non sembra che siano in grado di valutare la profondità di pensiero e la reale assimilazione degli argomenti trattati.

Premiare l'impegno, ma magari anche evitare che qualche giudizio ingiusto possa marchiare a vita degli ingegni brillanti, privandoli per sempre di ogni possibilità di ascolto. Penso poi, che non sia solo mia esperienza, che un ambiente scolastico ostile possa influire sul rendimento. Per questo motivo mi sembra che si debba anche stare attenti ad evitare, per esempio, che una vittima di bullismo, portato avanti con la complicità anche inconsapevole degli insegnanti, debba subire in aggiunta della persecuzione che ha dovuto subire, una condanna a vita alla disistima generale, privando poi la collettività del contributo che questi potrebbe dare al benessere collettivo.

L'impegno individuale non può essere considerato come avulso dalla relazione che l'individuo ha con il contesto.

Magari qualcuno potrà sentirsi confortato dal pensiero che se il talento riguarda l'imprenditoria e il commercio, le cose cambiano. Ma anche qui, in fin dei conti, avere importanti appoggi, può aiutare un pochino. 

Se sento parlare di riconoscimento dei meriti, la mia prima reazione è di pensare che si farebbe meglio, prima, ad abbattere il clientelismo, e la mentalità clientelare che affligge il popolo italiano come altri popoli.

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Intendiamoci, io ho sperimentato forme di lavoro di tipo, per così dire, comunitario, e ho potuto vedere come anche lì vi erano persone che sfruttavano il lavoro degli altri, perché non facevano la loro parte nella ripartizione dei compiti. Possiamo chiamarli scansafatiche. Io non credo che esistano forme di organizzazione del lavoro che generino automaticamente esseri umani altruisti. Io credo che qualunque sia la forma di organizzazione del lavoro che una nazione voglia darsi, vi saranno sempre persone più altruiste e persone meno altruiste, come persone per niente affatto altruiste. Di questa circostanza si deve certamente tenere conto nello stabilire le caratteristiche da dare all'organizzazione del lavoro. Però non si può fare della competizione il parametro assoluto dell'efficienza organizzativa, perché anche differenze abnormi nella distribuzione delle ricchezze sono disfunzionali, oltre che ingiuste.

Tra acqua fredda gelata e acqua calda bollente che possono uscire da un rubinetto, vi deve essere una miscelazione adeguata che sia gradevole per il nostro corpo. Le forme di organizzazione più idonee alle circostanze, io dico, possono essere trovate, purché vi sia una forma di reale democrazia, e cioè le decisioni vengano prese attraverso la partecipazione e il confronto.

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Veniamo a parlare allora della cosiddetta meritocrazia. Rilevo che mentre le conoscenze, le capacità, e le competenze, sono condizioni verificabili, il merito è una valutazione soggettiva. Ciò che è giudicato meritevole da alcuni, può essere invece una cosa da biasimare nel giudizio di altri. Penso che sia circostanza fin troppo nota, che il valore sociale dell'opera di molti artisti, scrittori e scienziati, sia stato riconosciuto solo dopo la loro morte. 

Ecco, io penso che per arginare il fenomeno di importanti contributi alla collettività, che da questa non vengono riconosciuti, occorre che essa sia più capace di ascoltare ed accogliere l'altro, invece di essere composta da individui in perenne competizione tra loro, che perfino si oppongono al contributo che persone anche di genio potrebbero dare alla collettività, perchè smaniano di primeggiare. Una collettività più capace di accogliere e ascoltare sarebbe, a mio avviso, anche una collettività più efficiente, oltre che più umana, perché capace di valorizzare le proprie risorse, tutte le proprie risorse, e non solo le (supposte) "eccellenze". 

In tal modo, tornando alla meritocrazia, posso dire che nella mia percezione, già di per sé "meritocrazia" è un termine che mette in luce il pesante fraintendimento valoriale che si vuole dare alle capacità. È come se si sottintendesse che, essendo le capacità associate al merito, giustificano i privilegi. Innanzitutto allora bisogna chiarire che l'autorità assegnata a certe figure professionali, non deve essere assegnata come privilegio, ma deve esserlo per permettere al professionista di svolgere la sua mansione. In tal modo non viene ad essere associata al merito ma alla funzione, e non deve superare i limiti della funzione che la giustifica.

Chiarito quanto sopra, al merito - e non alla meritocrazia - può essere associato un altro significato. Ovvero, quando diciamo che è giusto riconoscere i meriti di ciascuno, intendiamo dire che i contributi che ciascun individuo dà alla collettività, devono essere da questa riconosciuti e in qualche misura ricompensati. Però, se "a metà del 2019 la quota di ricchezza in possesso dell' 1% più ricco superava la quota di ricchezza complessiva detenuta dal 70% degli italiani più poveri dal punto di vista patrimoniale" [ da "La Repubblica"  https://bit.ly/3Hz9YDI ] c'è da chiedersi che farà mai per la collettività questo 1% della popolazione italiana. È più ovvio dedurre che non si tratta di merito, ma che la retribuzione da garantire per investimenti di capitale è ipervalutata rispetto al reddito da lavoro.

Il punto è che se - come io penso - l'organizzazione della produzione non determina univocamente l'etica degli individui che vivono nella società - come sostiene invece la teoria marxista - una pressione anche forte la esercita. La mia impressione è che se lo slogan olimpico recita: "Tu sei il mio avversario, non il mio nemico", questo viene considerato nel nostro contesto sociale, piuttosto un atteggiamento di cui farsi fregio, perché è chiaro a tutti che bisogna farsi strada con il pugnale e con il veleno. Machiavelli insegna. E perché la minoranza più ricca diventi sempre più ricca e acquisti sempre maggiore potere.  Dico questo per enfatizzare quanto nella mia percezione sia forte, la pressione esercitata dal presente sistema sociale, verso l’individualismo più sfrenato, fino a far perdere il sentimento  di vivere in una comunità umana. La mia percezione è che ciascuno impari a vedere in chiunque altro un possibile nemico, che potrebbe impedire che vengano a lui riconosciuti i propri meriti.


Il problema più grave, a mio avviso, è che si parla di "valorizzare le eccellenze". Allora io dico che se non è di capacità e competenze e conoscenze, che si parla, ma di genio, per la natura stessa del genio, che si trova in una condizione che sta molto al di là di quella dei suoi contemporanei, la sua valutazione è fuori dalle possibilità della collettività a cui  appartiene. Mi sembra che la maniera migliore di accoglierlo, di non isolarlo, è di fondare una comunità che sia disposta ad accogliere tutti, e dunque pronta all'ascolto di tutti. Perché poi, aggiungo, anche il più misero, il meno avveduto, può avere in qualche occasione qualcosa di importante da dare, e che può a tutti gli altri sfuggire.

E allora ecco che dico che la giustizia e la misericordia sono sorelle, e che è civile una comunità che è portata avanti con il contributo di tutti.

Valorizziamo la persona umana.

Maurizio Proietti iopropars


 

lunedì 8 gennaio 2024

La funzione della Befana nell'immaginario collettivo

"Buona Befana"
dipinto digitale
di Maurizio Proietti iopropars




La funzione della Befana

nell'immaginario collettivo


Una volta, se si dava a una donna della Befana, poteva essere un complimento solo per la Befana vera, quella che riempiva di dolcetti e regalini la calza ai bambini. Dire a una donna che era "la" Befana - proprio lei - poteva suonare come un modo per canzonarla, di dirglielo per scherzo, che più brutta non avrebbe potuto essere. Dirle invece che era "una" befana, suonava parecchio di più come un'offesa, un modo di esprimere ira nei suoi confronti, gridandole dietro quanto era brutta, ma proprio tanto, brutta. Oggi che le cose sono un po' cambiate, un po' anche piace, alle donne invece, di atteggiarsi a fare le befane, come a voler rivendicare un po' il diritto, di non essere sempre eleganti e ben curate.

Così ecco che con un cambiamento nel costume, il personaggio immaginario della Befana viene ad assumere una diversa sfumatura emozionale. Intorno a questo personaggio si costruiscono emozioni diverse nella nostra dimensione sociale. Allora a me sembra ovvio pensare che questo come altri personaggi, siano stati introdotti dalla gente nell'immaginario collettivo, al fine di ottenere proprio questo, al fine formare in ciascuno di noi delle emozioni che fossero condivise dall'intera collettività. La Befana è dunque un mito fondante della società odierna, come vi erano miti fondanti presso gli antichi greci e i romani, e gli altri popoli antichi. "Un mito fondante", io lo intendo come un elemento culturale che contribuisce a formare quel substrato emotivo sul quale si sviluppano le relazioni tra le persone. 

In tal modo, per quanto detto, allo scopo di maturare la consapevolezza del nostro essere sociale, può essere opportuno domandarsi la funzione di questo mito. 

Vorrei però innanzitutto richiamare all'attenzione dei miei lettori, una poesia sulla Befana, del tenero e amabile Giovanni Pascoli. Per me la poesia è un mezzo di formazione delle nostre emozioni, e dunque uno strumento di maturazione. È per questo motivo che io sono giunto alla poesia partendo dalla riflessione filosofica. Io Giovanni Pascoli l'ho amato e lo amo, gli voglio tanto bene.

La Befana

Viene viene la Befana,
vien dai monti a notte fonda.
Come è stanca! la circonda
neve, gelo e tramontana.
Viene viene la Befana.
Ha le mani al petto in croce,
e la neve è il suo mantello
ed il gelo il suo pannello
ed è il vento la sua voce.
Ha le mani al petto in croce.

E s’accosta piano piano
alla villa, al casolare,
a guardare, ad ascoltare
or più presso or più lontano.
Piano piano, piano piano.

Che c’è dentro questa villa?
uno stropiccìo leggiero.
Tutto è cheto, tutto è nero.
Un lumino passa e brilla.
Che c’è dentro questa villa?

Guarda e guarda… tre lettini
con tre bimbi a nanna, buoni.
Guarda e guarda… ai capitoni
c’è tre calze lunghe e fini.
Oh! tre calze e tre lettini…

Il lumino brilla e scende,
e ne scricchiolan le scale:
il lumino brilla e sale,
e ne palpitan le tende.
Chi mai sale? chi mai scende?

Co’ suoi doni mamma è scesa,
sale con il suo sorriso.
Il lumino le arde in viso
come lampana di chiesa.
Co’ suoi doni mamma è scesa.

La Befana alla finestra
sente e vede, e s’allontana.
Passa con la tramontana,
passa per la via maestra,
trema ogni uscio, ogni finestra.

E che c’è nel casolare?
un sospiro lungo e fioco.
Qualche lucciola di fuoco
brilla ancor nel focolare.
Ma che c’è nel casolare?

Guarda e guarda… tre strapunti
con tre bimbi a nanna, buoni.
Tra le ceneri e i carboni
c’è tre zoccoli consunti.
Oh! tre scarpe e tre strapunti…

E la mamma veglia e fila
sospirando e singhiozzando,
e rimira a quando a quando
oh! quei tre zoccoli in fila…
Veglia e piange, piange e fila.

La Befana vede e sente;
fugge al monte, ch’è l’aurora.
Quella mamma piange ancora
su quei bimbi senza niente.
La Befana vede e sente.

La Befana sta sul monte.
Ciò che vede è ciò che vide:
c’è chi piange, c’è chi ride:
essa ha nuvoli alla fronte,
mentre sta sul bianco monte.


Giovanni Pascoli


In questa poesia la Befana mi sembra che sia come un nucleo emozionale del poeta. Sembra una figura che lui ha introiettato - ovvero ha fatta sua - ed elaborato, facendola divenire una parte di sé. La Befana di cui Giovanni Pascoli parla in questa poesia, è al tempo stesso un complesso emotivo che lui ha assunto dalla tradizione nella sua infanzia, e una sua elaborazione di questo stesso complesso. Lui sa che non è la Befana a portare i doni, e dunque il personaggio diventa un osservatore della situazione e ha una reazione emotiva che diviene stabile nel suo modo di essere. La Befana - ovvero il Pascoli con gli occhi della Befana - ha visto la differenza tra ciò che avviene nella villa e ciò che avviene nel casolare, e questo è ciò che continua a vedere e annuvola la sua fronte.


"La buona Befana"
dipinto digitale 
di Maurizio Proietti iopropars


La Befana è una vecchietta brutta ma buona. È buona perchè portatrice di doni, per i quali non chiede di essere ringraziata. Per riceverli è sufficiente fare una tacita richiesta, appendendo una calza che lei riempirà. Non viene presentata come ricca, perché anzi viene descritta come una figura trasandata. Però il punto è che viene proposta ai bambini come un personaggio che ha una funzione educativa, perché se loro non saranno buoni, lei anziché i suoi doni, porterà loro il carbone, che è una cosa che a me dà l'idea che, se assaggiato, non deve essere per niente buono, e di cui un bambino veramente non saprebbe cosa farne.

Così si cerca di portare i bambini ad amare questa figura di vecchietta molto brutta ma buona e che promuove in loro la bontà. Sono due aspetti valoriali di una persona umana, verso cui si cerca di far sì che i bambini orientino il proprio affetto, passando sopra all'aspetto esteriore.

A mio avviso questa è una sana prospettiva educativa, ed è coerente con i principi cristiani, cosa che rende leggitimo inserirla nelle celebrazioni della tradizione natalizia. A me sembra bene, il fatto di terminare le festività e dunque le vacanze natalizie, con una giornata che sia anch'essa solenne e che sia di richiamo all'affetto.

Vorrei concludere ( "guarda caso..." forse penserà a questo punto chi è abituato a leggere i miei scritti ) con un richiamo alla Bibbia.

Nella prima lettera dell'Apostolo Paolo a Timoteo, cap. 2 versetto 15, nella mia versione della Bibbia, io leggo che le donne si salveranno tramite la maternità. Io ho sempre interpretato questo versetto come maternità spirituale, e però mi sono capitate tra le mani altre versioni che traducono che "si salveranno partorendo figli", che non mi sembra per niente un insegnamento cristiano. Bisogna vedere come è il testo originale, però per me è evidente che San Paolo dice che il magistero della parola è riservato agli uomini, e solo quello dell'esempio è invece aperto anche alle donne. I cristiani insegnano con la parola e con l'esempio, e io ho dato l'interpretazione che ho riferito appunto perché in sintonia con altri insegnamenti di San Paolo. 

Ora tornando alla Befana io ritemgo che la sua figura sia atta a veicolare il ruolo e la funzione della donna nella comunità cristiana, in cui è onorata proprio per la sue doti spirituali, che sono fonte di ispirazione e insegnamento, anche se non accompagnate dalla predicazione, riservata invece agli uomini, a causa di una condizione di maggiore debolezza in cui si viene a trovare la donna - così afferma San Paolo - perché artefice della caduta in seguito alla seduzione da parte del serpente.


Maurizio Proietti iopropars 





                                           






 

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