venerdì 26 agosto 2022

Alchimia Umana

"Alchimia Umana"
dipinto digitale di Maurizio Proietti iopropars

           

Qualche parola sul dipinto

Con quanto scritto di seguito, non intendo spiegare il dipinto, ma piuttosto illustrare le mie emozioni coinvolte nella sua creazione. 

Io penso all'alchimia, storicamente, come a un'aspirazione alla chimica di cui intuiva la possibilità. E più ancora che un'aspirazione la vedo come reificazione di una fantasia in cui alla possibilità che veniva intuita, si dava una forma di pratica effettiva. Così che per me è alchimia un mescolare elementi, senza produrre, se non occasionalmente, interazioni reali, ovvero reazioni chimiche.

Con "Alchimia Umana" intendo una condizione esistenziale che può venire prodotta da contesti organizzativi che non producono interazione umana reale, alienando gli individui che vi partecipano, di parte delle loro naturali modalità relazionali, e dunque delle loro emozioni. Si producono questi individui in certa misura assenti da sé stessi, che a volte compensano guardando la televisione e sognando la vita di altri. Alcuni sognano la vita dei personaggi famosi in cui si immedesimano. Forme di compensazione ci sono perché vengono elaborate ed offerte. 

A me sembra che la tonalità emotiva che fa da sfondo all'alchimia umana, sia quella del sentimento di colpa, soprattutto per chi è nei gradi inferiori della scala gerarchica dei contesti organizzativi che la producono. Questo sfondo del sentimento di colpa, si affaccia in gran parte della produzione letteraria di Franz Kafka, come ad esempio il racconto "Il colpo contro il portone". La mancanza di interazione reale non permette di chiarire i motivi di conflitto, generando attribuzioni di responsabilità che si trasformano in colpa, soprattuto per chi ha meno potere sugli altri.

Un esempio senz'altro banale, ma a mio avviso esplicativo del mio pensiero, per quanto potrei farne numerosi altri, lo ritrovo in un'interazione che ho avuto oggi pomeriggio, con una giovane donna al supermercato. Io, dopo avere pagato alla cassa, stavo molto rapidamente terminando di mettere le mie provviste dentro le buste, quando ho rallentato un pochino per mettere due buste chiuse di insalata lavata e in atmosfera protettiva, in modo che non si forassero durante il tragitto a piedi fino a casa, come mi era un'altra volta successo. Immediatamente allora, la signora che stava dietro a me, si è fatta avanti, senza esattamente spingermi, ma comunque facendo pressione con la sua spalla sul mio braccio, e facendo capire che era il suo turno di prendere possesso della posizione, e iniziare a mettere a posto la sua mercanzia, e che non poteva tenere più conto della mia presenza in quel posto nemmeno per un altro secondo, come effettivamente nel suo modo di fare non ne teneva più conto, se non quel tanto da non poter essere accusata di esercitare la forza. Si potrebbe definire una reazione maleducata, senza dubbio. Ma è maleducata appunto perché in quel modo di fare vi è un'attribuzione di colpa, l'attribuzione di una resposabilità da parte mia per un live rallentamento, che io non avevo, come lei certamente aveva potuto osservare, e su cui sarebbe potuta passare sopra. Diciamo che in quel modo ha cercato di farmi pesare la situazione. Si è mostrata infastidita, sia pure senza protestare apertamente. Se solamente non avesse voluto attendere, sarebbe semplicemente bastato dire un breve "Mi scusi", e iniziare a prendere le sue cose senza interferire con i miei movimenti. Le sarebbe bastato essere interattiva, ovvero tenere conto della mia presenza. Le sarebbe bastato comportarsi da essere umano, e portare avanti le sue esigenze, tenendo conto di quelle degli altri.

Nel mio dipinto vi è appunto una forma di organizzazione che tuttavia non esprime interazione.

Io oggi pomeriggio al supermercato mi sono guardato bene dal rivolgere un educato appunto a quella signora, del tipo "Signora mi scusi un istante, se mi consente ho quasi finito". Infatti ho idea, per esperienza, che abbastanza verosimilmente in questo modo avrei scatenato le ire del cassiere e delle altre persone in fila, non perché penso che tutti ce l'abbiano con me, ma perché attribuire colpa a qualcuno, a ragione o a torto, costituisce una condizione di vantaggio su quella persona. La mia netta impressione è di vivere in una società in cui moltissima gente, forse la maggior parte delle persone, non ha alcuna remora ad accusare ingiustamente qualcuno. In questa lotta di tutti contro tutti, anche le accuse ingiuste risultano utili, sebbene di solito non vengono formulate apertamente, ma piuttosto ventilate, fatte capire, in modo che più facilmente ci si possa ritrarre, e poi anche per non dare all'altro modo di difendersi ed eventualmente scagionarsi - è ovvio ci mancherebbe.

I contesti organizzativi di cui parlo, possono a volte determinare in coloro che occupano i gradi inferiori della scala gerarchica, la sensazione di non potersi sottrarre dall'essere trovati sempre colpevoli, perché non riescono a soddisfare le condizioni troppo gravose che vengono loro imposte. È quacosa di diverso dal problema "di avere un super-ego troppo potente", come può essere espresso in chiave freudiana, perché dipende dalle modalità organizzative a cui si è sottoposti. Intendo dire che non nego che la condizione descritta da Freud possa verificarsi, e cioè che l'istanza psichica preposta al controllo sul nostro comportamento morale, esageri nella sua funzione. Dico però che a determinare la sensazione di non poter sfuggire la colpa, in certe situazioni, vi possono essere innanzitutto dinamiche sociali, e solo di riflesso intrapsichiche.

Passando sul piano religioso, che occupa uno spazio profondo nel mio vissuto emotivo, dico che in questi casi mai dobbiamo pensare che il vissuto di non potersi sottrarre alla colpa venga da Dio. Perché anzi, quando il popolo di Israele era schiavo in Egitto, in una circostaza di questo genere Dio inviò Mosè a liberarlo. Infatti gli egiziani aggravarono la condizione di schiavitù degli israeliti, imponendo loro che dovessero procurarsi anche la paglia necessaria per fabbricare i mattoni che poi avrebbero utilizzato per le costruzioni, e che prima era loro fornita dagli stessi egiziani. Gli israeliti si trovarono allora in una condizione, non più solo di schiavitù, ma in cui non ce la potevano fare a soddisfare le richieste di coloro che li avevano ridotti in schiavitù.

Diciamo che al giorno d'oggi in Italia, un senso di insopprimibile inadeguatezza nei subalterni, si produce con meccanismi meno aparenti e non così gravosi, e ad esserne vittime sono le persone meno spregiudicate.

A Mosè fu data da Dio la Legge, che avrebbe dovuto garantire al suo popolo la coesistenza pacifica e la collaborazione. In realtà la Legge venne applicata, col passare del tempo, solo nei suoi aspetti esteriori, allo scopo di fare del rispetto della Legge un motivo per sé stessi di vanto.

Successivamente è venuto Gesù che ha sostituito la parola della Legge con il senso della Legge, che è, e anche prima avrebbe dovuto essere, nell'amore.

Gesù è morto per il perdono dei peccati, perdonando coloro che lo avevano crocifisso, e rivelando la disposizione di Dio riguardo alla colpa.

L'ipocrisia ha tuttavia, per come mi appare, di nuovo preso il sopravvento, trasformando anche il Cristianesimo, almeno in una larga parte, in una forma esteriore di culto. Le stesse "buone maniere" vengono sfoggiate come motivo di vanto da chi, essendo in condizione privileggiata, in un cerso senso "se le può permettere". Questo comunque è stato predetto, come sta scritto "Avranno le forme della pietà, ma prive di quanto ne costituisce l'essenza".

Per meglio chiarire le forme che prende l'alchimia umana, mi viene l'esempio di San Francesco D'Assisi in relazione all'organizzazione della Chiesa Cattolica. Per me è evidente che le crociate fossero una pratica anti-cristiana, ma nessuno mai avrebbe a quel tempo avuto il coraggio nemmeno di pensarlo. Se San Francesco lo avesse detto, anziché essere proclamato santo, sarebbe stato bruciato sul rogo. Ora tutta la gerarchia cattolica è retta dalla regola dell'obbedienza, che è qualcosa di diverso dall'amore fraterno con cui si possono risolvere le divergenze. Io sul Vangelo leggo "Non chiamate nessuno padre vostro sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello che è nei Cieli". Vai a dirlo a loro! I sacerdoti sono tutti "padri", e l'autorità suprema "Santo Padre".  Un sacerdote mi ha risposto "Ci sono pure i protestanti", con un tono di voce che intendeva "Che scuse vai cercando?". 

Non c'è interazione perché non c'è dialogo, perché sostanzialmente non c'è amore. Ecco allora che si genera "un'alchimia umana".

Maurizio Proietti iopropars


 

martedì 9 agosto 2022

Avere ancora caos in sé stessi

"Caos"
dipinto digitale di Maurizio Proietti iopropars


Avere in sé ancora caos

Io nel mio blog porto me stesso agli altri, ovvero mi faccio conoscere. Lo faccio con le mie riflessioni filosofiche, ma anche riportando espressioni dei miei vissuti emotivi. Allora mi chiedo anche cosa siano l'arte e l'opera d'arte, per stabilire se ciò che faccio rientri in questa categoria dell'arte.

L'opera d'arte, per come io l'ho intesa, è una forma di comunicazione. Anche se poi non credo che sia solo questo. Io penso che l'arte sia anche una forma di conoscenza che riguarda la nostra vita emotiva. Io penso che l'arte esprima e comunichi qualcosa di significativo che appartiene alla nostra esperienza emotiva, e che l'artista indaga in sé stesso riportandolo agli altri.

Se per me, come per altri, l'opera d'arte è una via d'accesso, possiamo dire, alla verità, vi sono state epoche e contesti storici in cui l'opera d'arte era intesa come riproduzione della realtà e anche rappresentazione della bellezza. Mi viene da pensare che anche in questi casi, già il fatto che vi sia un'opera, e cioè qualcosa di essenzialmente diverso da un "vieni a vedere questa cosa", lascia intendere che qualcosa di importante e significativo venga "trattato" in un certo modo. Viene riprodotto. Si diventa artefici di un qualche cosa che non può essere una copia identica di un determinato oggetto, ma che lo rappresenti "fedelmente". Si fa un lavoro di appropriazione di un elemento dell'ambiente, che diventa un artefatto ed entra all'interno della cultura. Entra nell'universo comunicativo di una popolazione. In tal modo, se in queste forme artistiche, la relazione con il mondo ha una maggiore importanza rispetto a forme artistiche in cui l'artista è maggiormente centrato sulla propria esperienza emotiva, io penso che la genesi e la funzione dell'opera d'arte sia la stessa.

Detto questo, ci tengo a precisare che io rifiuto il paradigma materia-forma riguardo all'opera d'arte. Io non penso che l'espressione artistica - sia essa poetica, musicale, o pittorica ecc. - sia una materia, o contenuto, a cui bisogna dare una certa forma. Io ritengo che nel creare un'opera d'arte, nell'indagine che l'artista compie in sé stesso per poterla creare, egli si ponga sempre in relazione con gli altri. In tal modo non c'è separazione tra i due momenti, quello conoscitivo e quello comunicativo-espressivo. A partire da una sensazione indistinta alla quale l'artista rivolge la sua attenzione, l'artista dà corpo a un'espressione che comunica agli altri questa sensazione, ma contemporaneamente permette allo stesso artista di intenderla. Per usare una metafora potremmo dire che l'opera d'arte senza la sua espressione è Caos. Caos e vissuto privato. Appartiene in qualche modo all'inconscio.

Io penso che l'artista modelli il linguaggio con cui si esprime, sulla società a cui appartiene, e pertanto di questa società egli sia espressione. Pertanto, io penso che per quanto ardito e innovativo possa essere il linguaggio con cui l'artista si esprime, il suo linguaggio non sia mai fuori della portata dei suoi contemporanei.

Sento che quello che ho esposto, è il motivo per cui a me piace riguardare i miei dipinti e rileggere le mie poesie, non perché io in tal modo ammiro me stesso, ma perché mi portano più in contatto con me stesso, oltre che farmi conoscere agli altri. E poiché quello che cerco in me stesso mi serve per crescere e maturare ed essere una persona migliore, penso che sia qualcosa in grado di essere utile anche agli altri.

Così, se ho riflettuto sulla creazione dell'opera d'arte, per passare a riflettere sulla sua fruizione, dico che capire un'opera d'arte significa capire un messaggio, ma per capire questo messaggio bisogna mettersi in condizione di riceverlo. L'opera d'arte però non è un messaggio cifrato da decodificare, come alcuni sembrano pensare. L'opera d'arte è una comunicazione emotiva che bisogna mettersi in condizione di ricevere, così che capire un'opera d'arte significa accettare e capire l'emozione che quest'opera ci porta a provare. Dunque bisogna saper ascoltare e capire noi stessi, dopo aver accettato di provare un'emozione che un'altra persona ci ha voluto trasmettere. 

Io non saprei dire fino a che punto, nella mia concezione dell'opera d'arte, non sia stato influenzato dalla lettura e rilettura, nella mia giovinezza, di "Così parlò Zarathustra", di Friedrich Nietzsche. A me sembra che nella "Prefazione di Zarathustra" - che è una narrazione che precede i discorsi di Zarathustra che si susseguono nel corso dell'opera - in forma di metafore si suggerisca qualcosa di analogo alle considerazioni che io ho appena esposto sull'opera d'arte.

Ho parlato di caos per indicare ciò che sarebbe l'opera d'arte, se la si volesse considerare priva del suo aspetto comunicativo. In "Così parlò Zarathustra", mi sembra che il concetto venga esposto con la metafora del sole a cui Zarathustra domanda cosa sarebbe della sua felicità, se non avesse a chi splendere. Zarathustra accumula la sua saggezza nella sua solitudine, ma nell'elargirla adegua la sua predicazione a coloro che incontra. Zarathustra proclama anche esplicitamente l'importanza di avere in sé ancora un caos. Io credo che intenda dire che dove si è generato ordine non vi può essere sviluppo, perché non vi è necessità di sviluppo. Ritengo che in "Così parlò Zarathustra", Nietzsche affermi che il tipo di ordine che la civiltà europea stava costruendo, fosse regressivo e privasse di senso l'umana esistenza. Si potrebbe riassumere il senso di quest'ordine, nella contentezza di sé medesimi. Dice Zarathustra:

Ma voi, fratelli miei, ditemi: che cosa vi rivela il vostro corpo sul conto dell’anima vostra? Ma non è dessa forse miseria e sozzura e miserabile contentezza di sé medesima?

Questo suo immaginario profeta per cui ha scelto il nome di Zarathustra, elenca coloro che egli ama, e tra le categorie che egli elenca, ve n'è una da cui a mio avviso si capisce meglio ciò che egli ama in coloro che ama, e dunque spiega il perché del suo amore:

Amo colui che della sua virtù forma la propria inclinazione e il proprio destino: così per amore della propria virtù egli vuole vivere più a lungo o non vivere più. 

Amare la propria virtù più di sé stessi, libera dal meschino attaccamento a sé stessi che frena ogni possibilità di sviluppo. L'ordine contro cui egli mette in guardia, è un ordine che porti di restare fissati a sé stessi e alla propria condizione, per quanto sia essa imperfetta, ma anche miserabile. È un ordine ottenuto al prezzo di perdere di sé stessi qualcosa. Per questo Zarathustra anche dice:

È giunto il tempo che l’uomo si proponga una meta. È giunto il tempo che l’uomo getti il seme della sua più alta speranza. 

E poi ancora:

Io vi dico: bisogna aver ancora un caos in sé per poter generare una stella danzante. Io vi dico: voi avete ancora del caos in voi.

Questo caos di cui parla, sembrerebbe indicare potenzialità inespresse, a cui si accompagna un senso di insoddisfazione. Infatti subito prima dice:

Guai! Si appressa il tempo in cui l’uomo non lancerà più la freccia della sua brama oltre l’uomo, e la corda del suo arco avrà disappreso a sibilare!

  Io dunque in "Così parlò Zarathustra" vi leggo un avviso che la civiltà procede in una direzione che priva di senso l'umana esistenza, perché il senso si troverebbe nello sviluppo del genere umano. La tendenza al superamento di sé stessi, sembra per lui essere intrinseca alla natura umana, così che rinunciare a porsi l'obbiettivo di uno sviluppo, sarebbe in realtà un tradimento di sé stessi. Lo sviluppo di cui parla Zarathustra, tuttavia, come si può leggere chiaramente, non riguarda i singoli individui ma il genere umano. Zarathustra chiede abnegazione agli individui, allo scopo di mettersi al servizio dello sviluppo del genere umano. Questo lo dice esplicitamente.

Con il concetto di superuomo non descrive affatto individui che essendo superiori agli altri, siano liberi di dominarli. Il concetto di superuomo è piuttosto una metafora rivolta ad affermare che gli uomini del tempo presente, devono produrre lo sviluppo per coloro che verranno dopo di loro. Il superuomo è il risultato del loro operare, rivolto a superare la condizione presente. Non invita i suoi contemporanei a diventare superuomini, ma a generare superuomini attraverso la propria opera. È ciò che egli chiama "la nobiltà del divenire", che contrappone alla nobiltà delle origini. Dichiara Zarathustra:

Il superuomo è il senso della terra

E poi più in là:

Io amo coloro che non sanno vivere altrimenti che per sparire giacché sono quelli che vanno oltre.

E ancora:

Amo colui che vive per conoscere e che vuole conoscere, affinché un dì viva il superuomo. Poi che in tal modo soltanto ei vuole la propria distruzione.

Si intende anche, che chi si pone questa meta che Zarathustra predica, eleva sé stesso, ma si eleva attraverso la propria abnegazione.

Compreso questo punto, è anche possibile, se questo si ritiene di dover fare, criticare il pensiero di Nietzsche, e determinarne più corretti sviluppi. La nostra cultura si è venuta invece spesso a dividere tra coloro che lo citano esaltati e coloro che lo denigrano, ma né gli uni e gli altri, per come io la vedo, tentano di comprenderlo con la necessaria attenzione.

Le metafore di Nietzsche sono di solito dotate di una grande risonanza emotiva, e per questo vengono spesso usate, anche attualmente in rete, per farsene fregio, tralasciando di affrontare quella radicale trasformazione di sé, a cui questo autore vorrebbe portare, per ridare il senso che vede e presenta come perduto, alla nostra esistenza.

È come se vi fosse gente impegnata nella costruzione di un'opera, e vi fosse qualcuno che grida loro che si devono fermare, perché stanno sbagliando e bisogna fare delle modifiche, e gli altri invece di fermarsi, ripetono quello che quell'uomo dice, imitando il suono della sua voce, perché a loro piace il suono della sua voce, perché a loro piace la passione che lui mette nella sua voce, la sentono come qualcosa di bello e vogliono attribuirsela e farsene fregio. Ma ciò che sentono e pensano bello è l'amore che quell'uomo porta per loro. Ma quest'amore cade nel vuoto, perché l'insegnamento che scaturisce da quest'amore viene ignorato, perché a loro interessa attribuirselo e niente più. È questo il modo in cui si chiudono all'ascolto.

Nietzsche alla sua opera "Così parlò Zarathustra" ha dato il sottotitolo "Un libro per tutti e per nessuno". Penso che egli abbia voluto esprimere in questo modo la sua percezione di sentirsi circondato da una chiusura alla comprensione della sua opera. Dire che non vi sia una categoria di individui, in particolare, per cui il libro è stato scritto, mi sembra che indichi la sua determinazione a non andare incontro ai lettori. Sta ai lettori operare al fine di trarre vantaggio dall'opera. Nessuno viene escluso, ma anche a nessuno si va incontro, "rendendogliela più facile". E Zarathustra lo dichiara "Io sono l'argine sull'orlo del precipizio. Si aggrappi chi può, ma non sono le vostre stampelle".

Una metafora di Nietzsche che è parecchio abusata, riguarda proprio il passo del caos che anche io ho citato, ma è stata modificata per farne una sorta di slogan. Il modo in cui viene citata è: "Solo dal caos può nascere una stella danzante". In questo modo sembra una frase atta a distinguere le persone che hanno il caos da quelle che non ce l'hanno, conferendo alle prime, una potenzialità che le seconde non hanno. Avere questa potenzialità, significa avere un valore che sta a loro saper fare fruttare. Questo non è quanto intendeva dire Nietzsche in quel passo. La presenza di un caos in sé stessi era una condizione culturale che riguardava tutti. Lui, così io l'ho inteso, parlava dello sviluppo da dare alla cultura del suo tempo.

Questo travisamento che ho appena esposto del pensiero di Nietzsche, a volte avviene in rete, anche in modi che mi danno un po' fastidio. Ad esempio, una persona che conosco, e che va spesso soggetta a delle crisi di nervi, ha pubblicato anche lui il suo bravo post con la frase "Solo dal caos può nascere una stella danzante", e a me è sembrata una sorta di rivendicazione personale. È come se avesse messo la metafora al servizio dell'inclusione sociale, ma in modo parecchio distorto. Come dire che solo chi ha qualche problema può produrre qualcosa di eccellente. Così, secondo questa logica, chi ne ha, dovrebbe acquistare valore agli occhi degli altri, a causa delle sue potenzialità. A me la cosa dà fastidio perché è sempre una forma di autoesaltazione e dunque anche di discriminazione. Io credo che l'accettazione sociale debba riguardare tutti, indipendentemente dal fatto che possano o meno generare stelle danzanti, e che non vi siano gerarchie di valore tra gli esseri umani. Per come la vedo io, è come se questa persona avesse rivendicato di non essere tra i discriminabili, ma tra gli ammirabili.

Il punto non è che io voglio impedire di perseguire l'ammirazione sociale a chi ha qualche problema, ma che penso che cercare l'ammirazione degli altri sia una cosa sbagliata per tutti. Io penso che ciò che causa la discriminazione di alcune categorie, sia proprio il fatto che le relazioni sociali sono basate sulla ricerca dell'ammirazione.

Nel parlare di Nietzsche, ma anche nel parlare della capacità di fruire dell'opera d'arte, è importante riflettere sul fenomeno della ricerca dell'ammirazione degli altri. Potremmo dire la ricerca del proprio prestigio personale. 

È proprio il fatto che Nietzsche parli di mete elevate, a risvegliare la vanagloria di molti suoi lettori. E però chi ricerca l'ammirazione degli altri viene ad essere ancorato al giudizio degli altri. Una cosa che dice Zarathustra nel capitolo della prima parte intitolato "Delle mosche e il mercato" è: 

Poco comprende il popolo la grandezza, cioè la creazione, ma ha occhi ed orecchi per i commedianti, per quelli che rappresentano le cose grandi.

Il mondo gira intorno agli inventori di nuovi valori: — gira invisibilmente. Ma intorno ai commedianti volgono il popolo e la gloria: tale è la vita.

 Il commediante possiede lo spirito, non la coscienza dello spirito. Egli sempre crede in ciò a cui suol persuadere gli altri: — crede cioè in sé stesso !

A me sembra che "Così parlò Zarathustra" sia un'opera che invita a rivolgere i propri sforzi verso l'elevazione del genere umano, procedendo nella direzione opposta della ricerca del proprio prestigio personale o accettazione sociale, o anche esaltazione di sé. Qualcuno potrebbe dire che questo testo è tale che ognuno riesce a leggervi ciò che più desidera. Io però do ai lettori del mio blog il link di Wikisource, così, se vogliono potranno dirmi come si fa a negare che almeno nella "Prefazione di Zarathustra" non si parli di abnegazione a favore dello sviluppo del genere umano.

it.wikisource.org/wiki/Così_parlò_Zarathustra/Parte_prima/Prefazione

Su come la vanagloria si opponga alla comprensione del senso dell'opera d'arte, come di quello della vita, ho espresso la mia opinione in un mio precedente post sul presente blog "Generale dietro alla collina"

iopropars.blogspot.com/2022/07/generale-dietro-alla-collina.html

Inventori di valori nuovi, per me, potrebbero essere stati coloro che in Italia, tra difficoltà ed errori, hanno voluto la chiusura dei manicomi (per fare un esempio). Senza di loro io, quasi certamente, adesso sarei rinchiuso in un manicomio, anziché condividere le mie idee in rete.

Maurizio Proietti iopropars

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