Il bardo
Partire, a cercare altri esseri
Umani vivi, sulla terra, ma poi...
Ma poi dove andare?
Quando segnali non giungono
Di nessuna presenza, umana viva,
Tutto all'intorno... E allora cantare
Per cercare di ridestare i morti,
O almeno tra di loro qualcuno...
Maurizio Proietti iopropars
Pensavo a Cesare Pavese
Quando ho scritto la poesia che vi propongo in questo post, pensavo tra l'altro, anche alla morte di Cesare Pavese. Avevo appena letto, riguardo al suo suicidio, che prima di uccidersi aveva scritto "solo" questa annotazione: "Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi."
Penso a "solo", e amaramente rido, per quanto queste poche parole, sono così descrittive della realtà umana che lui si sentiva intorno. È un commiato che ci parla delle persone da cui si accommiata.
Io questo vi sento, nella poesia di Cesare Pavese, che lui poneva a di fronte a sé stesse, persone che di trovarsi a sé stesse di fronte, non ne hanno mai voluto sapere, e che incontrando sé stesse, sempre sono fuggite e fuggono, via come di fronte a un'odiosa apparizione.
Cesare Pavese, come Dino Campana, e Giacomo Leopardi, magari anche Ugo Foscolo, e quanti altri, quanti, io mi domando, ne hanno trucidati e ne vorranno, ancora in vari modi trucidare, per poi farsi grandi della loro memoria? Questa gente tutta protesa a perseguire i propri scopi, che mai si interroga, su quanto umana possa essere la realtà sociale che dalla loro attività frenetica si va a produrre.
Maurizio Proietti iopropars
Riporto di seguito una poesia di Cesare Pavese, che da quando ero ragazzo, ha sempre suscitato in me un fascino quasi magnetico, per la profondità introspettiva che raggiunge, in una descrizione prevalentemente esteriore.
I pensieri di Deola
Deola passa il mattino seduta al caffè
e nessuno la guarda. A quest’ora in città corron tutti
sotto il sole ancor fresco dell’alba. Non cerca nessuno
neanche Deola, ma fuma pacata e respira il mattino.
Fin che è stata in pensione, ha dovuto dormire a quest’ora
per rifarsi le forze: la stuoia sul letto
la sporcavano con le scarpacce soldati e operai,
i clienti che fiaccan la schiena. Ma, sole, è diverso:
si può fare un lavoro più fine, con poca fatica.
Il signore di ieri, svegliandola presto,
l’ha baciata e condotta (mi fermerei, cara,
a Torino con te, se potessi) con sé alla stazione
a augurargli buon viaggio. E’ intontita ma fresca stavolta,
e le piace esser libera, Deola, e bere il suo latte
e mangiare brioches. Stamattina è una mezza signora
e, se guarda i passanti, fa solo per non annoiarsi.
A quest’ora in pensione si dorme e c’è puzzo di chiuso
‐ la padrona va a spasso ‐ è da stupide stare lì dentro.
Per girare la sera i locali, ci vuole presenza
e in pensione, a trent’anni, quel po’ che ne resta, si è perso.
Deola siede mostrando il profilo a uno specchio
e si guarda nel fresco del vetro. Un po’ pallida in faccia:
non è il fumo che stagni. Corruga le ciglia.
Ci vorrebbe la voglia che aveva Marì, per durare
in pensione (perché, cara donna, gli uomini
vengon qui per cavarsi capricci che non glieli toglie
né la moglie né l’innamorata) e Marì lavorava
instancabile, piena di brio e godeva salute.
I passanti davanti al caffè non distraggono Deola
che lavora soltanto la sera, con lente conquiste
nella musica del suo locale. Gettando le occhiate
a un cliente o cercandogli il piede, le piaccion le orchestre
che la fanno parere un’attrice alla scena d’amore
con un giovane ricco. Le basta un cliente
ogni sera e ha da vivere. (Forse il signore di ieri
mi portava davvero con sé). Stare sola, se vuole,
al mattino, e sedere al caffè. Non cercare nessuno.
Cesare Pavese